Mancin su QS: l'Italia non è un paese per medici

Pubblicato da Quotidiano Sanità lo scorso 26 aprile, in una settimana è stato condiviso più di 5mila volte l'articolo L’Italia non è un Paese per medici scritto da Ornella Mancin, medico di famiglia a Cavarzere, ma anche consigliere dell'OMCeO veneziano. Un malessere evidentemente molto diffuso nella categoria, quello raccontanto dalla dottoressa Mancin, malessere già emerso nelle scorse settimane in un altro articolo a firma del presidente Giovanni Leoni, come dimostrano le quasi 12mila visualizzazioni su questo sito e le più di 9mila condivisioni. «Reggere a dei carichi lavorativi abnormi - spiega Ornella Mancin - lavorando  in continua emergenza per far fronte alle carenze di organico si sta rivelando talmente sfibrante da far sì che molti colleghi decidono di abbandonare anzitempo il lavoro per dedicarsi ad altro. L’Italia “non è un Paese per medici”, non più e non ora, perché è un Paese che non sa valorizzare chi costituisce il cuore di tutto il sistema sanità».

Ecco il testo integrale dell'articolo pubblicato su Quotidiano Sanità 

26 APR - Gentile Direttore,
c’è un senso di frustrazione che accompagna oggi il nostro essere medico ed è legato alla percezione che il lavoro che ci siamo scelti e che amiamo è considerato sempre meno, trasformato in lavoro impiegatizio  con l’intento non troppo nascosto di renderlo facilmente sostituibile. Così che una delle professioni più ambite di sempre sta entrando in crisi e si cominciano a vederne i segni.
Reggere a dei carichi lavorativi abnormi lavorando in continua emergenza per far fronte alle carenze di organico si sta rivelando talmente sfibrante da far sì che molti colleghi decidono di abbandonare anzitempo il lavoro per dedicarsi ad altro.

È il fenomeno che il Vicepresidente Fnomceo nonché Presidente Omceo veneziano, Giovanni Leoni definisce come “L’autodimissione dei medici dagli ospedali”, descritto egregiamente in una sua lettera inviata a questo quotidiano che nel giro di pochi giorni ha raggiunto quasi 10.000 condivisioni, segno di un problema decisamente molto sentito.
Si chiede Leoni: “Fino a quando si regge a questa vita, fino a quando le personali motivazioni etiche e morali ti fanno reggere il ritmo? La tua coscienza, il senso del dovere? E quanto valgono di fronte al fatto che nessuno di quelli che dovrebbero ti apprezza per quello che fai ma anzi ti sfrutta senza remore, ti ridicolizza con lo stipendio bloccato da 10 anni, con la reperibilità notturna e festiva pagata un euro netto all’ora?”.
Alla percezione di non essere apprezzati si aggiunge infatti una retribuzione ferma da anni con prospettive di guadagno sempre minori per cui viene meno anche un altro dei motivi che rendevano attraente la nostra professione.
Così oltre all’autodimisisone si assiste ai concorsi che vanno vuoti soprattutto per le specialità dove il rischio medico legale si fa più pressante.
Il medico è un mestiere in crisi.

Eppure se vantiamo uno dei sistemi sanitari migliori è proprio grazie a chi ci lavora, in primis i medici: “Senza i medici e senza i professionisti della sanità non c’è servizio sanitario nazionale” ha affermato il presidente Fnomceo Anelli.
Eppure chi dirige e amministra la sanità ritiene di poterne fare a meno, o comunque di poter disporre dei medici come meglio crede, senza l’ascolto che si dovrebbe riservare a chi opera sul campo e fa un lavoro intellettuale complesso.

Parafrasando il titolo di un famoso film si potrebbe dire che l’Italia “non è un Paese per medici”, non più e non ora, perché è un Paese che non sa valorizzare chi costituisce il cuore di tutto il sistema sanità.
Il problema non sembra essere percepito completamente dai giovani che in massa provano il test di medicina ancora attratti da una idea di professione affascinante.
Il problema viene colto appena uno si affaccia alla professione. Spesso i giovani medici lavorano per molti anni ricoprendo mansioni anche molto impegnative per compensi miseri. Ci sono giovani colleghi che lavorano per 10 euro lordi all’ora. Basta pensare a quei giovani medici assunti da “cooperative” che vengono mandati a lavorare a “gettone” nei Pronto soccorso o nelle ambulanze, con un rischio medico legale  enorme sulle loro spalle, data la loro scarsa esperienza ed enorme responsabilità.
Chi può scappa all’estero dove i compensi sono 2-3 volte quelli italiani. Chi resta è destinato a peregrinare da un posto all’altro con contratti molto flessibili e limitati (da 6 mesi a qualche anno).

E poi se il medico è donna (e lo è ormai il 70% degli iscritti a Medicina) il futuro è ancora meno allettante e la possibilità di mettere su famiglia e fare un figlio richiede una determinazione notevole (basti pensare per esempio che le giovani colleghe in gravidanza non vengono sostituite negli ospedali lasciando tutto il carico lavorativo nelle spalle di chi resta).

No, l’Italia non è un Paese per medici.
A  questo si aggiunge il grave problema delle aggressioni ai medici, fenomeno in costante aumento e di difficile eradicazione nonostante la lodevole campagna di sensibilizzazione partita dall’Omceo di Bari e fatta propria dalla Fnomceo con il titolo “Chi aggredisce un medico, aggredisce se stesso” e il recente appello del segretario Nazionale della Fimmg Scotti, che ha scritto una lettera aperta ai cittadini  con l’hastag #picchiateMe.
 
Non è un paese per medici un paese che consente che questo accada, che permette che chi va al lavoro possa essere aggredito, violentato, financo ucciso facendo semplicemente il proprio lavoro. 
Né è ipotizzabile, come dice il dr. Panti nel suo articolo (QS 23 aprile) che la perdita di prestigio della professione sia riconducibile a una mancanza di ritualità che vede nell’indossare il camice e visitare il paziente i simboli più alti e a suo modo di vedere disattesi dai medici.
Per me e per i tanti  medici che vivono ogni giorno in trincea, in realtà è stata tolta la possibilità di un tempo adeguato per visitare e ascoltare a fronte di un impegno sempre maggiore per adempimenti burocratici e controlli amministrativi così che quello che viene a mancare non è il  rito, ma la sostanza stessa dell’essere medico e questo non per volontà dei medici ma di chi da anni sta trasformando la nostra professione intellettuale in professione impiegatizia.
 
È necessario, come ha detto dalle pagine di questo giornale (QS 27 aprile) il dott. Oliveti Presidente dell’Enpam, “rilanciare con forza la cultura del concetto di tempo clinico: tutto il tempo necessario per sostanziare un rapporto e una relazione di fiducia tra la persona che ha un problema di salute e quella che si propone di aiutarlo” ma questo non sembra possibile finché continuerà ad essere l’economia a guidare la sanità e a dettarne le regole.
 
No il nostro non è un Paese per medici, non più, non ora.
 
Ornella Mancin, Medico di famiglia Cavarzere (VE)
26 aprile 2018
 

Segreteria OMCeO Ve
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