Autonomia, nuova formazione, relazione: così cambia il medico senza diventare un robot

Serve una nuova figura di medico, che porti in sé un supplemento d’anima, un di più che dia un senso alla professione, al di là delle macchine. L’idea di fondo, già emersa nel simposio ispirato al cinema  (leggi qui un resoconto) che venerdì 16 giugno ha anticipato il convegno scientifico, è stata approfondita e ampliata sabato 17 giugno alla Scuola Grande di San Marco durante la giornata di studi intitolata Medicina tra umanesimo e tecnologia, che ha chiuso un lungo anno di riflessioni a sfondo filosofico – con tappa intermedia a marzo con l’incontro Medicina Meccanica (leggi qui un resoconto)che ha caratterizzato l’Ordine veneziano dei Medici Chirurghi e Odontoiatri. Una riflessione condotta dalla Fondazione Ars Medica con la collaborazione dell’Università Ca’ Foscari e di LAI, Libera Associazione di Idee.
Una giornata di studi in cui si sono incrociati illustri ospiti nazionali ed esperienze locali legate alla tecnologia positiva, quella che aiuta il professionista nella sua quotidianità, senza schiacciarlo, restando mezzo e non diventando fine.

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«L’obiettivo delle relazioni di oggi – ha spiegato nei suoi saluti iniziali il presidente dell’OMCeO provinciale Giovanni Leoni, prima di una piccola cerimonia di dedica al dottor Antonio Lo Giudice e al professor Giuliano Bruscagnin, presenti i familiari – è mostrare gli accostamenti alle problematiche della professione medica legate alla tecnica, il controllo delle possibilità, l’evoluzione del medico come un protagonista che si deve, però, confrontare con situazioni nuove. Questo è un nuovo capitolo di un lungo percorso tra medicina e filosofia, sviluppato originariamente da Maurizio Scassola, vicepresidente della FNOMCeO, che si rammarica molto di non poter essere qui con noi oggi».
Prima dell’avvio dei lavori un saluto è arrivato anche dal padrone di casa, Giuseppe Dal Ben, direttore generale dell’Ulss 3 Serenissima – che, con il Comune di Venezia, ha patrocinato il convegno – che ha voluto sottolineare uno dei temi già emersi durante il simposio: l’importanza della relazione di cura.
«Per questo convegno – ha affermato – non potevate scegliere luogo migliore perché camminando in questi spazi, tra atlanti anatomici e strumenti medici, si respirano la storia della medicina e la sua evoluzione. È scontato sottolineare l’importanza dell’evoluzione tecnologica in campo medico: il problema è se il medico sia affetto o meno da dipendenza tecnologica. Senza tecnologia non possiamo lavorare, ma bisogna lavorare usando la testa. Ricordiamoci che come medici siamo studenti a vita: dobbiamo continuamente imparare, ma soprattutto dobbiamo imparare dal malato, dal paziente, ascoltandolo».

A introdurre i lavori è stata Ornella Mancin, presidente dell’Ars Medica e membro del direttivo dell’OMCeO veneziano, che ha subito posto tutte le questioni che hanno portato all’organizzazione di questo convegno scientifico. «Nel giro di 10 anni – ha spiegato – quasi tutti i lavori manuali saranno sostituiti dalle macchine. Che impatto avrà lo sviluppo tecnologico in ambito sanitario? Abbiamo strumenti precisissimi, non solo per la terapia: potrebbero arrivare anche nell’assistenza… un robot infermiere per esempio».
La domanda fondamentale, allora, è se il futuro sia di un medico-macchina. «Il progresso – ha aggiunto – è sempre accompagnato dalla paura. Dobbiamo imparare a dominarlo, a non restarne schiacciati. La macchina può sicuramente far meglio di noi, ma deve essere al nostro servizio. I dati vanno integrati con le nostre competenze cognitive e socio-emozionali, il nostro pensiero critico, la capacità di risolvere problemi complessi, con la nostra sensibilità».
Il punto, dunque, è capire se si vuole ridurre la medicina solo a una rigida serie di protocolli da applicare, come farebbe una macchina con i suoi algoritmi. Se si vuole, insomma, una medicina che ripara un corpo o una che si prende cura della persona nella sua complessità. «Purtroppo – ha concluso la dottoressa Mancin – la medicina già controlla i comportamenti e le scelte dei medici, rischiando di toglier loro quella creatività necessaria che fa della nostra professione intellettuale un’arte».

La sessione mattutina, moderata dalla filosofa Isabella Adinolfi e dal dentista Pietro Valenti, componente della CAO veneziana, ha visto alternarsi al tavolo dei relatori illustri ospiti nazionali: da Luigi Vero Tarca e Ivan Cavicchi, che hanno accompagnato l’Ordine lungo tutto il percorso, a Sergio Bovenga, segretario della FNOMCeO, da Umberto Galimberti a Patrizia Marti, responsabile di un avveniristico laboratorio all’Università di Siena.
Il professor Tarca si è chiesto innanzitutto se è possibile porre dei limiti alla tecnica. «La risposta – ha detto – è no: non è possibile porre alcun limite a priori. Ma un limite c’è: se la tecnica è la soluzione esatta di un problema, questa soluzione crea rischi e danni generati proprio dal fatto di aver risolto quel problema. La soluzione tecnica di un problema, insomma, ne genera a sua volta due di nuovi». E per spiegare il concetto fa l’esempio della lavatrice che risolve il problema della fatica della lavandaia, ma che ne trasforma anche la vita, lasciando vuoto lo spazio che lei dedicava al lavoro. «Non significa – ha aggiunto – che la soluzione non vada bene. Significa che serve uno sguardo che colga il contesto e la complessità del problema».
Dal filosofo è arrivata poi anche una riflessione, già sottolineata nel convegno di marzo, su ciò che davvero è la medicina. «Chiamiamo medicina – ha spiegato – l’eliminazione della malattia, ma la cura della salute, dall’alimentazione agli stili di vita al benessere, è tutt’altra cosa e non è in mano ai medici. Serve, allora, una nuova figura di medico che porti in sé un supplemento d’anima, un di più che dia un senso positivo a ciò che sta accadendo. Parlo di un orizzonte di relazioni umane che dia senso a ciò che viviamo».

Più specificatamente di evoluzione storica della tecnologia ha parlato, invece, Sergio Bovenga, segretario della Federazione nazionale degli Ordini (FNOMCeO), che ha sottolineato gli aspetti umanoidi che si danno ai robot, come in alcuni pronto soccorso il triage sia già affidato alle macchine, come esistano ormai auto senza pilota e robot che scrivono poesie, ma anche come dai sondaggi arrivi un’indicazione chiara e precisa: la gente preferisce la relazione con l’umano.
«Una volta – ha sottolineato – c’era il medico come punto di riferimento. Prima ancora degli strumenti, c’era l’essere dottore. Poi la tecnologia ha cambiato questa figura. La professione, allora, deve maturare un approccio cosciente alla tecnologia e alle logiche digitali per non trasformarci a nostra volta in strumenti inconsapevoli. Non bisogna mettere al rogo la tecnologia, ma ricondurla nei binari della scienza e nell’ambito della riflessione etica e deontologica».
L’idea di fondo, suggerita da Bovenga, è che non debba esserci necessariamente una contrapposizione tra medico e macchine, ma che «possa esserci – ha aggiunto – una co-evoluzione tra una tecnologia ormai inarrestabile e un pensiero umano che evolve di pari passo. Il segreto è recuperare le nostre radici umanistiche e conoscere le logiche che sostengono la tecnologia».

Lapidario, invece, l’esordio nel suo intervento di Ivan Cavicchi. «Sono contento – ha affermato convinto – di farmi curare dalla tecnologia, di vivere nel terzo millennio. Se andate a vedere gli strumenti chirurgici esposti nella sala San Marco c’è da avere paura». Detto questo, però, ha subito messo in chiaro anche i tre concetti fondamentali che hanno guidato la sua riflessione. Il primo: la professione medica vive una crisi che nessuno ha mai dichiarato. «Quindi – ha aggiunto – quando penso alla filosofia e al suo ruolo rispetto ai problemi della medicina, penso che la filosofia ci debba aiutare a costruire un pensiero».
Il secondo punto: mentre c’è questa grande espansione della tecnologia, ci sono molte realtà che hanno un segno contrario, anti-tecnologico: cresce la deriva tecnologica ma crescono anche terapie terapeutiche e scuole di pensiero che vanno in direzione opposta, come le medicine non convenzionali o quelle border line. «Penso, ad esempio – ha spiegato – ai pediatri che usano l’omeopatia o agli anestesisti che usano l’agopuntura».
Ultimo concetto: con l’avvento della tecnologia si sono spostati i confini tra la vita e la morte, confini che sono cambiati e che hanno fatto sorgere nuovi problemi. «La tecnologia – ha detto Cavicchi citando il pensiero di Severino quanto mai appropriato se applicato alla medicina – non ci rende degli Highlander, degli essere infiniti, ma il concetto di finitudine che c’era 50 anni fa è completamente cambiato oggi».
Altro tema affrontato dal docente dell’università romana di Tor Vergata il concetto di macchina intesa come amministrazione, un concetto che chiama in causa la gestione del potere. «Governiamo – si è chiesto il sociologo – o siamo governati? Il potere del medico è dato dal grado di autonomia che ha. Oggi, però, gli equilibri storici tra politica e medicina sono compromessi e uno dei limiti è dato dall’aspetto economico. Il disagio grande della professione è che fatica a ripristinare nuovi equilibri: oggi, così, i medici sono inevitabilmente governati dal potere. Il problema vero, allora, è difendere l’autonomia intellettuale del medico, perché altrimenti a rimetterci è solo il malato, perché altrimenti non governiamo la complessità».
L’errore, allora, da non commettere mai – già sottolineato da numerosi interventi – è trasformare il ragionamento in una procedura, in un protocollo, in una linea guida da applicare. «Nel nostro mondo – ha aggiunto Cavicchi – non puoi più far nulla se non hai le linee guida. Non ho più il pensiero per pensare? Non ho più un cervello per ragionare? Un medico meno è autonomo, meno sceglie, più è una macchina. Per non essere un robot bisogna essere favorevoli alla scienza e disubbidire».
Ma come se ne viene fuori? Ivan Cavicchi una risposta ce l’ha: «Bisogna cambiare il medico. La velocità dei processi di cambiamento è molto più alta della vostra capacità di reagire a questi stessi processi. Un altro medico è possibile se è il frutto di un processo di governo della professione che parta dal rinnovamento dei programmi di formazione»

Partendo dalla medicina geocentrica di Ippocrate – legata agli elementi della terra aria, acqua, cibo e luogo – e passando attraverso l’idea di Cartesio che trasforma il concetto di corpo in organismo – cioè un insieme di organi, qualcosa da osservare come un oggetto – Umberto Galimberti ha poi affrontato nel suo intervento il concetto di metodo scientifico: la scienza è un sapere oggettivamente valido per tutti, riproducibile ovunque, dovunque, da chiunque, con i medesimi risultati. «Se, allora, la medicina vuole essere una scienza – ha chiosato provocando – deve subito scartare l’individuo. La tecnica vi ha esonerato dallo sguardo clinico: non si guarda più il paziente, si guardano gli esami. Voi siete i lettori dei prodotti di questi apparati tecnici. Ma, così, ne va della relazione con il paziente, una relazione importante. Anche nel corpo ridotto a organismo c’è una storia di vita che viene fuori quando il paziente chiede al medico un po’ di umanità, chiede di essere soggetto, non solo un contenitore di organi».
Torna, dunque, in primo piano l’importanza della relazione di cura, quel quid in più di sensibilità, ascolto, attenzione, creatività, che il medico può mettere in campo, cosa che la macchina non potrà mai fare.
Altre le provocazioni lanciate alla platea dei professionisti: la controversia sull’obiezione di coscienza, che, parole sue, fa “inferocire” Galimberti; o ancora l’incapacità umana di “sentire” la morte anche quando è piena la consapevolezza di dover morire; o, infine, il rapporto tra corpo e mondo che si scinde soprattutto nelle malattie terminali, «quando il paziente – ha spiegato il filosofo tornando di nuovo sullo stesso concetto – non cerca più l’assistenza, ma vuole la relazione».

L’ultima parte della mattinata, prima della discussione plenaria, ha dato spazio a un’interessante esperimento messo in piedi dall’Università di Siena: il Fab-Lab Santa Chiara presentato dalla responsabile della struttura Patrizia Marti. Una breve relazione che ha in qualche modo riconciliato la platea con il mondo tecnologico, sottolineando esperienze positive di applicazioni tecniche alla medicina.
«Il nostro laboratorio – ha spiegato – è particolare perché è aperto a tutti: chiunque può venire a collaborare. Un ambiente di artigianato digitale in cui non solo si produce qualcosa, ma si costruiscono anche le macchine per fare ciò che serve». Sono nati, così, ad esempio: il progetto di una mano robotica personalizzata, disegnata e stampata in 3D e costata appena 200 euro; la collaborazione con un’équipe di chirurghi vascolari per riprodurre in 3D copie originali dell’aorta con cui il team può lavorare meglio sia nelle soluzioni terapeutiche da adottare, sia nella spiegazione al paziente della patologia e della possibile cura; un robot interattivo, simile a un cucciolo di foca, che reagisce solo con le carezze e che viene impiegato con notevole successo, ad esempio, nelle terapie per anziani con demenza avanzata (guarda il video).

La sessione pomeridiana – moderata dalla filosofa Tizana Mattiazzi e dal vicepresidente di Ars Medica Gabriele Gasparini dopo la presentazione e la distribuzione del libro contenente gli atti del convegno Il potere sulla vita: etica o economia della cura, organizzato nel 2015 – è stata, invece, dedicata ad alcune esperienze locali di tecnologia positiva, intervallate da una serie di letture presentate dalla filosofa Melania Cassan e curate da Marco Ballico, medico, psicoterapeuta e docente IUSVE.

Enrico Cagliari, direttore dell’Unità di Neuroradiologia dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre, ha spiegato come l’attività del radiologo sia simile a quella di un detective, come questa disciplina sia nata propria dalla tecnica e come il radiologo sia il medico che meglio di tutti conosce le potenzialità delle apparecchiature. Ha poi illustrato la complessità di questa professione, che rischia di essere soverchiata dalla tecnologia, sottolineando anche l’abuso della diagnostica per immagini. «Siamo chiamati a fare da mediatori – ha detto – tra l’uomo e la macchina, sempre più sofisticata, anche se noi radiologi siamo spesso confusi proprio con la macchina».
Massimo Gion, responsabile del centro e del programma Biomarcatori Regione Veneto dell’Ulss 3 Serenissima, ha parlato, invece, della tecnica invisibile, della complessità delle attività di laboratorio, delle criticità proprie legate alla figura di un medico che non lavora a stretto contatto con il paziente e che deve restare al passo con le continue sfide lanciate dall’innovazione. «La medicina di laboratorio, però – ha sottolineato – non deve restare invisibile: è paritetica alle altre branchie e deve partecipare ai percorsi di diagnosi e terapia per salvaguardare i pazienti, gestire innovazioni sempre più complesse e ripensare il modello organizzativo».
Maura Veronesi, dirigente del Coordinamento ospedaliero Trapianti del nosocomio mestrino, ha offerto subito dopo la forte testimonianza di un paziente 52enne trapiantato, Flavio, seduto accanto a lei, che ha raccontato: «Prima, con il dispositivo di assistenza ventricolare, di notte, dovevo attaccarmi alla corrente. Ora, dopo il trapianto, ho un’ottima qualità di vita». L’intervento è anche l’occasione per spiegare i meccanismi della donazione, la necessità di un consenso molto allargato da parte dell’opinione pubblica, «l’aspetto umanizzante – ha concluso la dirigente – che per noi trova realizzazione in particolare nella relazione con le famiglie, i nostri veri pazienti».
Spazio anche a Roberto Merenda, direttore del dipartimento e dell’unità chirurgica dell’Ospedale Civile di Venezia, che, attraverso foto e filmati, ha illustrato nel dettaglio il funzionamento del robot Da Vinci «che – ha spiegato – non funziona se non siamo noi medici a guidarlo. Il chirurgo usa il robot, ma la macchina fa ciò che l’uomo ha deciso di farle fare. Il robot è solo un mezzo molto sofisticato che mi consente di ottenere un risultato migliore. Il robot non può fare da solo, ha bisogno, ad esempio, di qualcuno che cambi gli strumenti: dal punto di vista delle persone in sala operatoria non è un vantaggio. Io lavoro sempre con la mia équipe».
A chiudere la carrellata di esperienze locali è stato chiamato Matteo Valle, responsabile Organizzazione, Compensation e Servizi Generali di OVS, per illustrare lo smart working, una nuova organizzazione del lavoro che muove le sue fila proprio dal progresso della tecnologia per portare il lavoratore a riscoprire la propria dimensione umana. «Lo smart working – ha spiegato – è ripensare il mondo del lavoro in modo più intelligente, mettendo in discussione assunti storici: il lavoro non si fa più in orari e luoghi precisi. Le persone hanno così più autonomia ma anche più responsabilità sui risultati. Tutto si basa su un principio chiave: la fiducia».

Tanti gli spunti emersi, sia dalle relazioni, sia dai momenti di dibattito, durante queste due faticose giornate di studio. «Le letture che avete sentito – ha detto Marco Ballico prima di chiudere i lavori – come i film che avete visto ci hanno suggerito l’immagine di mondi futuri. Mondi che potrebbero essere buoni, utopici, o non buoni, distopici: i testi letti sono distopici, ci fanno vedere una società in cui la tecnica ha un impatto rilevante sulla vita sociale delle persone. La tecnica ha la capacità di plasmare la società e nella distopia il bene della comunità è il bene del singolo».
La suggestione provocatoria lanciata dal dottor Ballico, allora, è che la nostra civiltà possa essere arrivata a un momento di passaggio in cui sarà proprio la tecnica a traghettarci. «E allora – ha concluso – perché dovremmo averne paura? Rallegriamoci: passeremo da una dimensione a un’altra, una naturale evoluzione, un perfezionamento di un passaggio epocale. Di cosa ci dovremo preoccupare? Le macchine ci aiuteranno a non lasciare nulla al caso. Se l’uomo diventerà una dimensione sola con la tecnica, ciò che perderà è proprio l’immaginario, la creatività. Ma non importa: sarà un’altra epoca».

Per non correre questo rischio i passaggi da fare sono tanti e il percorso che ha portato a questo convegno ha provato a tracciarne la strada. Certo, senza la pretesa che possa essere l’unica, ma con la convinzione che solo il dibattito e l’approfondimento possano portare la professione medica a non subire quel cambiamento di cui, in questo momento, pare avere così tanta paura.

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Provincia di Venezia

Segreteria OMCeO Ve
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