DESISTENZA TERAPEUTICA: VITA E MORTE, OCCORRE UN LINGUAGGIO NUOVO

In collaborazione con il sito www.desistenzaterapeutica.it pubblichiamo il seguente articolo:

DA IL GAZZETTINO “CULTURA & SOCIETA’” del 31 maggio 2008



La fine dell’esistenza, i limiti della scienza, i dilemmi della bioetica in un convegno organizzato a Mestre dall’Ordine dei Medici

Vita e morte, occorre un linguaggio nuovo

Forte sottolineatura sulla distinzione fra "desistenza terapeutica" e "eutanasia"

di Adriano Favaro


"Desistenza terapeutica". Ser-
ve un linguaggio nuovo per par-
lare di vita, e di morte. Si riparte
da Mestre: per non fare più con
fusione tra "eutanasia" e "desi-
stenza" o "limitazione dei tratta
menti". Per considerare sempre
dignità e diritti della persona.
Desistere vuol dire cessare, ri-
nunciare. Fino a ieri nella lin-
gua italiana la parola era stata
usata quasi solo per la politica, o
nei processi.
Ora entra nel mondo medico
per allargarsi al vocabolario co
mune. Per questo a Mestre l'Or
dine dei Medici ed odontoiatri
ha chiamato, al primo simposio
nazionale sulle "Decisioni di fi
ne vita e la desistenza terapeuti
ca, il filosofo Massimo Cacciari,
il chirurgo-senatore Ignazio Ma
rino, un sacerdote docente di
bioetica esperti del mondo me
dico e scientifico. «Vogliamo
creare le basi per importanti
svolte nelle terapie di fine vita»
ha detto il presidente dell'ordi
ne Maurizio Scassola.
Fine vita vuol dire morte? Sì.
Ma la parola morte sembra
espulsa dalla quotidianità. Ave
va detto, anni fa, il cardinale di
Venezia Angelo Scola: «Non è
ovvio il concetto della morte.
Oggi c'è rimozione della morte:
che trova inedito e sconsiderato
appoggio in esaltazione della
medicina, che si unisce all'azio-
ne dei media. E ci si convince
che la scienza prolungherà la
vita fino a vincere la morte. Ma
il nostro corpo è programmato
alla morte».
Problema di significati. «Par-
lare di desistenza terapeutica
non ha nulla a che vedere con
vaghi discorsi di eutanasia -
spiega Massimo Cacciari - È si-
gnificativo che i giornali "con-
fondano". A volte ci sono tragici
fraintendimenti sulle cure e sul-
la vita. I problemi sono chiaris-
simi: però nascono equivoci».
Serve disincanto e Cacciari lo
spiega così: «La scienza medica
non è attrezzata culturalmente
ad affrontare il problema di
quella "cura" che riguarda il ma-
lato che deve essere accompa-
gnato a morire». La scienza spe-
cializzata non ha spazio per «la
scienza e la medicina della per-
sona».
«Il successo degli ultimi cin-
que secoli della medicina viene
dalla specializzazione estrema -
dice il filosofo - Ma chi è stato
educato ad essere competente a
quella cura che assiste alla mor-
te? Il grande medico non fa cure
palliative (e neanche diventa
medico di base). "Cura" è parola
che vuol dire anche "angustia":
trovarmi faccia a faccia con la
mia fine». Servono le parole per
dire (anche) una società diso-
rientata. Lo sanno i medici che,
a Mestre, tentano - per ora da
soli - una nuova strada di dialo-
go e comprensione. Sono in tanti
ad ascoltare anche Davide Maz-
zon (coordinatore della commis-
sione bioetica degli anestesisti)
e Luciano Orsi (gruppo studio
terapia intensiva). I loro discor-
si. dovrebbero essere conosciuti
il testo di Michael Fitzpatrick
(autore de "La tirannia della sa-
lute") che Scola aveva citato:
«Vale al pena di vivere qualche
giorno di vita di più, tra flatu-
lenze, astinenza totale in un gri-
giore senza una sigaretta, una
crema o una birra?».
Bella domanda. Fondamenta-
le. Mazzon e Orsi sostanzial-
mente paiono rispondere: ma
che senso ha vivere attaccati
all'albero di Natale delle flebo
che, quando non servono, dav-
vero fanno solo male al pazien-
te? «Basta con la militarizzazio-
ne della malattia. I primi che
anni fa chiedevano di smetterla
con le terapie intensive inutile
erano i cappellani degli ospeda-
li. La vera via alla bioetica è
quella che passa - attraverso le
persone - nelle cucine di casa e
nelle stanze di ospedale».
Frustate. Che strappano pel-
le, cerotti, garze e aghi e le inu-
tili flebo. Che stanno nel cervel-
lo di uomini e donne col camice
che già faticano nei loro ospeda-
li o ambulatori per un
consenso
informato, che percepiscono
che in cima al loro agire c'è una
metaforica condanna sociale già
scritta da un possibile magistra-
to sempre pronto ad intervenire
contro l'irriguardosa morte.
Sembra aver sentito que-
st'aria Cacciari quando dice:
«La nostra società diseduca a
morire: perciò il paziente e il
familiare si trovano senza paro-
le di fronte alla morte. Non ci
hanno mai pensato: morire è
"verbum, non factum". Se si è
analfabeti di fronte a questo
momento fondamentale, e ma-
gari i familiari nascondo che
stai morendo non ne sai parlare.
Il paziente stesso avverte che
sta morendo e non sa parlarne, e
molte volte chiede accanimento
terapeutico per nascondersi.
Senza flebo vuoi dire che muoio,
ma non so dire nulla sulla mor-
te. Allora si chiede la restituzio-
ne della vita o dell'esistenza di
prima con la carta bollata».
Ma in quest'Italia balbettante
c'è sempre una giustizia? E ci
sono sempre le leggi giuste?
Ignazio Marino, senatore Pd,
già presidente della commissio-
ne sanità nel precedente gover-
no, chirurgo con 25 anni di atti-
vità negli Usa (trapianti di fega-
to) è stato nelle prime pagine
per la sua proposta di testamen-
to biologico. «L'ho ripresentata -
dice - il primo giorno della nuo-
va legislatura. Ma ho aggiunto
alcuni capitoli: finanziamento
per gli hospice (i luoghi dove si
accolgono pazienti terminali)
che sono 120 in tutto di cui 103
al Nord; facilitazioni per le tera-
pie del dolore, regole per le cure
palliative. I medici non devono
dire che questa legge limita le
loro capacità decisionali».
I medici applaudono Marino
quando spiega che le soluzioni
della vita non devono stare nei
tribunali ma dentro i luoghi di
cura. affidare questi percorsi ad
un magistrato e non a un comi-
tato etico. La mia proposta di
legge - aggiunge - sul testamen-
to biologico è agile e leggera e
prevede un fiduciario ce il pa-
ziente nomina nel caso non po-
tesse più decidere. Un esempio?
Prima della possibilità di dialisi
qualsiasi malato in nefrologia
avrebbe dato istruzioni per un
percorso che - dopo le scoperte -
sarebbe cambiato. Un malato di
reni in coma potrebbe tornare a
vivere bene, con la decisione
presa dal suo tutore, aggiornato
sulle nuove scoperte». La strada
di Marino è realismo della com-
netenza scientifica: «Idratazio-
ne e alimentazione artificiale,
da sole non esistono quasi mai:
si danno eparina, antibiotici, an-
tiepilettici». Sistema totalmente
artificiale, distante dalla natura-
lità».
Cacciari aveva detto: «Nel 90
per cento dei casi paziente, fa-
miliari e medici non hanno mai
parlato di morte: parlano di vita
e medicina, o di eliminare il do-
lore. Non moriamo più: crepia-
mo. Si muore assieme se si par-
la, altrimenti si crepa, soli. A
morire di impara a scuola: com-
prendendo la propria finitezza,
ma se per tutta la vita rimuovia-
mo la morte come si può pensa-
re che all'ultimo questo proble-
ma si possa risolvere?». Chissà
se la politica, che ha usato anche
toni barbari e comportamenti
rozzi su questi temi (e la socie-
tà) sapranno ridiscutere. Per fa-
re le leggi che mancano e che
permettono di dare il significato
dell'esistere. Come scriveva il
poeta Rilke: «O Signore concedi
a ciascuno la sua morte, frutto
di quella vita in cui trovò amore,
senso e pena».


IGNAZIO MARINO
«Serve la depenalizzazione»
Fino a quando si sarà un magistrato (o il suo spettro) tra un medico e un paziente difficilmente il nostro Paese potrà affrontare con serenità temi difficili della vita, medicina, cura e morte. «Io penso - ha sostenuto il medico-senatore Ignazio Marino, accogliendo l'invito dei professionisti riuniti a Mestre - che sia necessario depenalizzare l'atto medico dall'ordinamento giudiziario. Il medico che sbaglia, nonostante lo scrupolo usato seguendo codici e sistemi deontologici, cioè non dovrebbe andare davanti ad un tribunale penale ma ad uno civile, per un risarcimento. Credo - ha spiegato il senatore Marino, accogliendo i suggerimenti de colleghi di Mestre e Venezia - che questo problema possa essere risolto in questa legislatura. C'è la mia volontà e anche quella dei colleghi della maggioranza. I medici devono trovare, con i pazienti e i loto familiari, soluzioni dentro il luogo di cura; senza pensare che ogni volta si possa ricorrere ad un magistrato».
Uguale posizione da parte di Giuseppe Englaro, papà di Eluana in coma da oltre 5980 giorni: «Un'evoluzione culturale in questo paese sulle scelte finali avrebbe eliminato qualsiasi ricorso al magistrato come è accaduto nel caso di mia figlia. Io sono arrivato a parlare di "violenza sanitaria».

IL TEOLOGO CANNIZZARO
«Saper interpretare il paziente»
Il testo del catechismo sulla morte, cure e sanità, scritto da Joseph Ratzinger è stato usato sia dal senatore di centro sinistra, è stato citato da Ignazio Marino e dal docente di bioetica, don Corrado Cannizzaro che ha spiegato ruolo e il pensiero della Chiesa sulla desistenza terapeutica. un termine - ha ricordato che non esiste ancora nel vocabolario ufficiale». Da decenni la Chiesa ha tracciato percorsi precisi sui comportamenti nei confronti del prolungamento precario dell'esistenza nell'imminenza della morte. «Il Catechismo del 1992 - dice Cannizzaro - parla di continuazione delle "cure ordinarie" ma non di cure che debbano andare contro la ragionevole volontà e negli interessi legittimi del paziente». Insomma sì all'alleviare il dolore in certi casi ma no a persecuzioni terapeutiche. Il confine su quanto la cura sia "oggettivamente proporzionale" è aperto, dentro i principi della morte "condizione umana" e cure senza accanimenti. Si parla di antropologia teologica filiale e Cannizzaro è stato attento sulla "desistenza" che va interpretata e capita da medico e familiari del paziente: «Accogliere la morte, non provocarla» è il messaggio. Difficile da inserire in una legge. Ma non da capire.
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