Procreazione assistita: un ruolo di sostegno per il medico di famiglia

Da spettatore ad attore: è questa la trasformazione a cui è chiamato il medico di medicina generale quando una coppia infertile di suoi pazienti si appresta a intraprendere il lungo, complesso e spesso doloroso percorso della procreazione medicalmente assistita (PMA). In stretta sinergia con gli specialisti a cui questa coppia farà riferimento per molto tempo. Un ruolo di sostegno, quello che è chiamato a svolgere, e di accompagnamento che può rivelarsi molto prezioso.
È quanto è emerso nel convegno Terapia della sterilità. Il medico di medicina generale: spettatore o attore? che sabato 4 febbraio si è svolto nella sede mestrina dell’OMCeO, organizzato da Arc-Ster, grazie ad alcuni sponsor, con il patrocinio dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri della Provincia di Venezia e il sostegno della Fondazione Ars Medica.
Un’occasione per fare il punto sui trattamenti di fecondazione assistita, sulle nuove metodiche di genetica preconcezionale e preimpianto, sulle norme che le regolano in Italia e sulle possibili interazioni tra gli operatori coinvolti nel processo.
«Moltissime – il messaggio arrivato dal presidente Giovanni Leoni – le problematiche per le coppie di una certa età che improvvisamente si rendono conto della mancanza di un figlio. Moltissimi i drammi che possono capitare. Purtroppo questa è anche una branchia che si presta a speculazioni economiche non trascurabili perché quando le famiglie si svegliano dal torpore spesso sono disponibili a tutto pur di avere un erede. C’è allora una grande differenza tra chi approfitta di questa debolezza psicologica e chi, invece, la affronta in modo sistematico e scientifico, fondando la sua attività su questi binari».

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Tra le premesse da cui si è partiti per l’organizzazione di questo aggiornamento, come ha spiegato Fabio Rizzo che ne ha curato la segreteria scientifica con Renato Favero, la consapevolezza che la mancanza di procreazione nelle coppie si stia rivelando un grosso problema sociale, medico e biologico e la convinzione che proprio il medico di famiglia possa diventare il cardine nella gestione della coppia infertile, «non – ha detto – per oberarvi ancora di più di lavoro, so bene quanto siete già massacrati dalla burocrazia, ma perché siete fondamentali per i pazienti, siete la figura principe per loro, apprezzati, stimati, ben voluti. Voi siete il primo filtro, quello più importante».
Fondamentale, dunque, innanzitutto, che proprio il medico di medicina generale abbia gli strumenti giusti per guidare questi pazienti. I dati, però, dicono che solo il 3,7% delle coppie infertili – una su sei in Italia, oltre 70mila quelle trattate con tecniche di procreazione nel 2014 – viene indirizzato dal medico di famiglia ai centri di PMA. Il livello informativo, insomma, è ancora troppo basso.
A causare molti danni l’eta avanzata in cui si comincia a cercare il primo figlio: l’infertilità, infatti, sia materna che paterna, aumenta con l’andare degli anni. «L’età migliore per fare un bambino – ha spiegato il dottor Rizzo – è tra i 20 e i 30 anni. Il 70% delle pazienti, invece, fa un trattamento di fecondazione assistita in età meno favorevole, oltre i 34 anni». Sperare, poi, di ottenere qualche risultato dopo i 42, è vano e illusorio: il figlio a 50 anni arriva solo con l’eterologa.
A entrare, poi, nel dettaglio delle tecniche di procreazione assistita è stato l’altro organizzatore del convegno, il dottor Renato Favero, che ha illustrato, tra le altre cose, i trattamenti di primo e secondo livello, le analisi preliminari (i test di riserva ovarica, di valutazione della pervietà tubarica, lo spermiogramma), l’inseminazione intrauterina, la fecondazione in vitro, lo screening genetico preimpianto, le tecniche di crioconservazione degli ovociti sopranumerari e degli embrioni.
Altri aspetti scientifici sono stati illustrati da Elena Chiozzini, specialista di Arc-Ster – che ha parlato della crioconservazione dei gameti nei pazienti oncologici, dei danni che possono provocare nella donna e nell’uomo la chemio e la radioterapia, e di social freezing, cioè la conservazione degli ovociti nelle donne sane per bloccare il proprio orologio biologico in attesa che le condizioni economiche, sociali ed emotive consentano loro di progettare una gravidanza – e da Patrizia Ardenghi, anche lei specialista di Arc-Ster, chiamata, invece, ad illustrare i nuovi test genetici: NIPT, cioè test di diagnosi prenatale non invasivi, di screening e non diagnostici, che analizzano le trisonomie più frequenti (la 13, la 21 e la 18), e i PGD e PGS, diagnosi e screening genetico preimpianto, il primo per identificare embrioni non affetti da patologie genetiche, il secondo per identificare quelli con un normale corredo cromosomico.

Una panoramica della normativa in materia e della terapia farmacologica che si adotta in questi percorsi è stata, invece, fornita da Stefano Zaccagnini, responsabile del centro PMA della Clinica universitaria di Verona, che ha avviato la sua relazione con alcuni dati per dare il contesto: dal 2005 al 2014 le gravidanze ottenute con queste tecniche sono aumentate del 60%, i bimbi nati vivi del 161%, le coppie che necessitano di queste terapie del 65%.
Purtroppo, però, in questo campo il Veneto vanta pochi primati, accostandosi più alle regioni del Sud Italia che a quelle più avanzate. Colpa di una delibera regionale del 2011 che ha prodotto storture non da poco. Se, infatti, da un lato ha aperto le porte del trattamento fino ai 50 anni d’età per le donne – pur sapendo che la percentuale di “bambini in braccio” oltre i 45 anni è zero e dunque con spese inutili e inaccettabili per il sistema sanitario nazionale – dall’altro ha fissato a 7 i cicli a cui una coppia si può sottoporre, cicli che non vengono azzerati, in caso, ad esempio, di successo della terapia.
Una 45enne, insomma, che vuole avere un figlio può tentare il percorso, che si rivelerà inutile, ma una 32enne che vuole un secondo figlio dopo una prima PMA non potrà farlo se ha esaurito i suoi cicli di trattamento.
Condizioni che, però, ora potrebbero cambiare grazie alla pubblicazione dei nuovi LEA, i livelli essenziali di assistenza, in cui è stata inserita anche la PMA. LEA in cui, purtroppo, non mancano le criticità: dall’assenza di un limite d’età alla la non specificata crioconservazione degli ovociti, dalla mancanza dell’esenzione dal ticket per i donatori all’assenza dell’approvigionamento dei gameti, alla discrezionalità lasciata alle Regioni nell’assegnazione dei ticket delle varie prestazioni.

Una volta fissato il contesto, la parola è passata a Marco Ballico, medico, psicoterapeuta, docente allo Iusve e componente del comitato scientifico della Fondazione Ars Medica, per illustrare gli aspetti psicologici che gravitano attorno al percorso di PMA.
«Il counselling – ha spiegato – non tratta una malattia, è un attività di ascolto e di indirizzo. Sterilità e infertilità non sono malattie: la coppia va accolta e si deve verificare la consapevolezza che ha nel percorso che vuole intraprendere». Molte coppie, infatti, sono infertili anche se compatibili e questo causa un dramma esistenziale: l’infertilità può minare una relazione di coppia.
«C’è poi – ha aggiunto – un altro aspetto importante e delicato: la cura della ferita narcisistica tra la sofferenza e la speranza, la sofferenza del progetto che non parte, non si realizza e la speranza che la tecnica e la medicina danno al paziente di poter superare questo dramma».
Da non sottovalutare, infine, la depressione del fallimento che ricade sulla medicina generale: non sono poche, infatti, le coppie che restano al palo, persone che hanno bisogno di essere aiutate a riscoprire la loro generatività stimolando in loro un nuovo progetto.
Ecco, allora, comparire con chiarezza il ruolo che può avere il medico di famiglia, al di là delle semplici prescrizioni: conosce i pazienti, il contesto in cui vivono, le loro debolezze, la loro storia famigliare e può accogliere e sostenere, astenendosi da qualsiasi giudizio.

Medici di medicina generale che, però, si diceva all’inizio, hanno scarse informazioni in materia e si sentono più spettatori di questo percorso che attori. Una sensazione confermata anche da Luca Barbacane, medico di famiglia e segretario dell’OMCeO veneziano, che per l’occasione ha fatto un piccolo sondaggio tra i suoi colleghi: il 48% si sente per lo più spettatore, il 44% totalmente spettatore, nessuno totalmente attore.
A lui, dunque, il compito di individuare le criticità della situazione: si parte dalla scarsa conoscenza della materia, delle norme vigenti e delle strutture sanitarie a cui inviare le coppie – «per dare informazioni aperte e trasparenti ma anche concrete» ha spiegato – all’assenza di comunicazione con gli specialisti. Se da un lato il medico deve tenersi aggiornato, dall’altro mancano occasioni di scambio con chi di questa materia si occupa ogni giorno.
Altri limiti: il timore di prescrivere farmaci pressoché sconosciuti e a volte anche molto costosi e la difficoltà di prescrizione degli esami stessi. «In questo caso – ha aggiunto – il compito potrebbe essere meno complicato se gli specialisti mettessero la codifica numerica delle prestazioni e se i medici di famiglia preconfezionassero nei loro software, cosa facile e possibile, dei pacchetti di accertamenti a cui fare riferimento».
Tra le cose, insomma, di cui un medico di medicina generale ha bisogno ci sono un dialogo più stretto con gli specialisti, magari anche con i numeri di cellulari di riferimento, una formazione più specifica, una conoscenza più adeguata sull’approccio con i pazienti e sul loro accompagnamento, lo sgravio dell’onere delle prescrizioni. «La risposta, insomma – ha concluso Barbacane – è una collaborazione più stretta tra di noi: se ci incontriamo e ci parliamo, la soluzione si trova». È proprio da qui, allora, dall’incontro e dalla sinergia che bisogna ripartire per fare del medico di famiglia quella figura chiave auspicata dagli specialisti della procreazione medicalmente assistita.

Chiara Semenzato, collaboratrice giornalistica OMCeO Provincia di Venezia

Segreteria OMCeO Ve
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