Strategie di rete, ascolto e svolta culturale: la violenza di genere si combatte così

Ciò che si è fatto, e nel veneziano è stato molto, purtroppo non è ancora sufficiente. La violenza di genere e domestica è una piaga aperta, un fenomeno complesso che finisce un giorno sì e uno no sulle pagine di cronaca nera dei quotidiani. Per contrastarlo c'è molto ancora da fare, a partire da una sinergia stretta tra tutti gli attori in campo: mondo sanitario, in primis, ma anche magistrati, forze dell'ordine, avvocati, assistenti sociali, amministrazioni comunali.
Se n'è parlato abbondantemente durante i due giorni del convegno Violenza domestica e di genere: aspetti medici e giuridici che si è svolto il 14 e il 15 ottobre al Padiglione Rama dell'Ospedale dell'Angelo di Mestre, organizzato dalla Commissione Pari Opportunità dell'OMCeO veneziano, in collabroaione con tantissimi enti sul territorio: dallla Polizia di Stato alla Procura della Repubblica, dal Comune di Venezia alle 4 aziende sanitarie lagunari, dall'Ordine degli Psicologi del Veneto all'Ipasvi.

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«Questo è il convegno più importante – ha spiegato Giovanni Leoni, presidente dell'OMCeO veneziano, aprendo i lavori, dopo aver salutato le tante autorità civili, militari e religiose presenti – della mia vita professionale. Importante per tema, istituzioni coinvolte e valori etici e spirituali che sono alla base di una convivenza degna di essere definita civile. Questo convegno nasce da un altro convegno, un seme gettato nel maggio 2015, per creare un protocollo interistituzionale di contrasto a questo fenomeno. È doveroso dimostrare all'opinione pubblica che questo tema non va sui giornali solo per l'ultimo efferato episodio, ma anche per l'impegno delle istituzioni, che tutti i giorni lavorano al fine di contrastare questo fenomeno sommerso, di origine atavica, che ci trasciniamo anche nel 2016».

Un fenomeno che, come più volte è emerso dalla due giorni di studi, ha contorni ben precisi: una donna su tre subisce un qualche tipo di violenza nell'arco della sua vita. Nel 91% dei casi il luogo di questa violenza è la casa: l'abuso, insomma, scatta da parte di un coniuge, un convivente o un ex. Ancora troppa la fatica con cui le donne vanno a sporgere denuncia: per non compromettere la famiglia, per paura, per vergogna, perché si sentono in colpa, come se la violenza dipendesse da loro. Dati che fanno parlare la giornalista Nicoletta Dentico, responsabile internazionale della Fondazione Lelio eLisli Basso ISSOCO, di «un'epidemia globale della violenza contro le donne, di dati dimensionali che tolgono il respiro, di 603 milioni di donne che vivono in paesi in cui questo tipo di violenza non è un crimine».
Servono allora iniziative di formazione e sensibilizzazione, bisogna potenziare l'accoglienza e il sostegno alle vittime, diffondere le best pratice, ciò che sul territorio è attivo e funziona. Serve, insomma, l'approccio multidisciplinare alla base di questo stesso convegno. Ci sono vari attori – è stato sottolineato spesso – e vari protagonisti che incidono, ognuno con la propria visione. Mettere insieme queste visioni, significa creare un percorso strutturato che prende in carico la donna o il minore abusati, li sostiene e li accompagna per uscire dal tunnel. Un'interazione che non è per nulla scontata, che permette di reagire in modo rapido ed efficace e che a Venezia si concretizza attraverso il protocollo siglato da ben 14 tra enti e istituzioni.

Tra le azioni più concrete, suggerite agli operatori sanitari da Luigi Delpino, procuratore della Repubblica di Venezia, il consiglio alle vittime di rivolgersi alla questura per avviare la procedura di ammonimento, un atto poco conosciuto ma che permetterà in seguito di procedere d'ufficio per tutte le violenze successive.
Dal canto loro le forze dell'ordine si impegnano, ad esempio, in corsi di formazione al personale, per prevenire il rischio di recidiva e la possibilità di un atto estremo, e nell'educazione dei giovani, nella formazione nelle scuole, per insegnare il rispetto della dignità e dell'alterità.

Fondamentale, poi, la figura del medico che è spesso il primo punto d'appoggio delle vittime di violenza: non solo, però, i professionisti del pronto soccorso, a cui donne e bambini arrivano magari con botte e fratture, ma anche i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta e gli odontoiatri, professionisti che godono spesso di un rapporto di fiducia privilegiato con i pazienti.
Proprio loro – si è ripetuto spesso durante il convegno – possono e devono fare di più perché conoscono più di un elemento della stessa famiglia e la storia medica complessiva della persona. Sono loro che devono farsi una domanda in più, farsi venire qualche dubbio e, a volte, senza troppa paura o preoccupazione, fare domande dirette se sospettano un abuso.
Tra i consigli pratici, arrivati in particolare da Paola Facchin, pediatra dell'Università di Padova, chiedere sempre alla donna maltrattata se c'è anche un figlio, se c'è una mamma maltrattata vedere sempre anche i bambini, valutare in caso di abusi la possibile presenza di altre forme di maltrattamenti, di dipendenze o di patologie.
Nella convinzione assoluta – anche in questo caso più volte ribadita – che la violenza è un problema innanzitutto di salute, con pesanti ricadute sociali ma anche sanitarie: donne e minori abusati non stanno bene, hanno difficoltà a camminare, a fare molte normali attività, hanno pensieri suicidi, problemi di ansia o anche di infezioni ricorrenti, disturbi alimentari, del sonno o dello sviluppo. Il medico mai deve verificare il racconto della donna o del bambino: il suo obiettivo e dovere è di occuparsi del suo stato di salute.

Difficile, quasi impossibile – e a dirlo sono criminologi e forze dell'ordine – tracciare un profilo dell'abusante. Più proficuo, invece, puntare per la prevenzione sull'elemento della relazione, “che, quando presente, annulla la componente di genere. L'aggravante non è il genere, ma la relazione”. Una delle caratteristiche principali che deve avere chi entra in contatto con possibili vittime è la capacità di ascolto, la disponibilità a ricevere una serie di informazioni ma con i tempi di chi parla, non di chi raccoglie la testimonianza.
Inasprire le pene il compito del legislatore, «ma – spiega Adelchi d'Ippolito, procuratore aggiunto della Repubblica – sta a noi creare le condizioni di serenità, tutela e sicurezza che spingano la donna a denunciare i fatti di violenza. Non come successe con il Circeo quando il processo si trasformò in un processo alle due ragazze. Una vera vergogna».

Se, nonostante tutto, i reati non sono in calo, allora la repressione non basta, la strada da percorrere è un'altra. Serve una crescita culturale del Paese: bisogna andare nelle scuole e spiegare ai ragazzi che la violenza non è mai la soluzione di un problema, che non aiuta a conquistare una donna o a diventare un leader. La svolta, insomma, non può che coinvolgere i giovani.
La scuola, a sua volta, può essere un alleato potente, se torna a dare valore alla parola, al racconto, al linguaggio. «Gli insegnanti – dice il professor Michele Visentin, preside dell'Istituto superiore dei Salesiani di Padova, presente con un gruppo di studentesse che riporteranno ai compagni quanto appreso – devono alzare la soglia di intelligenza emotiva. Il tema dell'ascolto è sempre più centrale: è fondamentale che i ragazzi possano raccontarsi, se vogliamo cogliere i segnali di abuso. Il livello di dolore di studenti e genitori è in aumento».

Due giorni, come si diceva, che hanno visto anche la presentazione di vari modelli e protocolli elaborati ed attuati da amministrazioni pubbliche, cooperative sociali, aziende sanitarie: dal tavolo interistituzionale e dal lavoro di rete dell'Ulss 12 Veneziana agli esempi di Firenze e Bologna, dal ruolo operativo del Comune di Venezia con il Centro Antiviolenza al codice rosa attivo nei Pronti Soccorso delle Ulss lagunari, al lavoro della Coopertiva Iside.

Uno sguardo, infine, anche al ruolo che giocano le sostanze come farmaci, droghe e alcol nei casi di violenza, sostanze depressive o eccitanti del sistema nervoso che rendono le donne più vulnerabili e quindi più esposte agli abusi. Sostanze spesso inodori, incolori e insapori che vengono aggiunte alle bevande alcoliche favorendo la perdita di coscienza.

Toccante, alla fine della mattinata del venerdì, la testimonianza di “Angela”, prigioniera e schiava fino ai 12 anni in un campo nomadi, liberata dalla propria determinazione, da un suo alto senso di libertà e giustizia e dall'aiuto senza riserve di un brigadiere dei carabinieri. Entrambi sono stati premiati con una targa ricordo offerta dalla Commissione Pari Opportunità dell'OMCeO veneziano.

Chiara Semenzato, collaboratrice giornalistica OMCeO di Venezia

Segreteria OMCeO Ve
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