Patriarca Moraglia e Procuratore D'Ippolito a confronto sulle Cure Palliative

«Dico ai politici di non avere fretta, ma di fare anche per questo motivo una buona legge che tratti il tema del fine vita, sapendo che è in gioco pure la professionalità dei medici e l'obiezione di coscienza». Questo il monito del Patriarca Francesco Moraglia, intervenuto ieri mattina al convegno sulle cure palliative in neurologia, organizzato dalla Società italiana di neurologia del Triveneto al Padiglione Rama. Un tema caldissimo, in questi mesi, sul quale Moraglia si è confrontato assieme al Procuratore Adelchi D’Ippolito, osservando la questione da punti di vista differenti, quello teologico e quello giuridico.

Per il Patriarca, infatti, «la nuova legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento non è una questione di essere credenti oppure no, ma di far parlare la realtà. Ringrazio tutto il personale sanitario per come si prende cura dei pazienti in un momento così infausto per quelle persone, ma su questo tema c’è in gioco la vita dell’uomo e la persona concreta che è rappresentata in tal caso sia dal paziente che dal medico. Quest’ultimo sa di essere impotente a un certo punto, perché oltre certi limiti non si può andare, come l'alpinista che non riesce a raggiungere la vetta e comprende la situazione. Il medico non ha la bacchetta magica. Allora bisogna chiedersi: l’uomo cos’è, un prodotto o una realtà precostituita? Quanto conta la libertà, in questo caso di decidere?». Quindi aggiunge: «La vita è un bene primario ma non assoluto, poiché anche in teologia è contemplato il sacrificio per gli altri. Auspico quindi che i pazienti non siano mai lasciati soli, senza cadere nel rischio di abbandono oppure di accanimento terapeutico, ma va valutata con grande attenzione l’appropriatezza clinica di intervento».

Il convegno di ieri ha visto confrontarsi numerosi specialisti triveneti del settore neurologico, tanto che il presidente dell'Ordine provinciale dei Medici, Giovanni Leoni, si è augurato che la politica «dia indicazioni chiare, che il medico non sia lasciato solo in certe decisioni e alla fine sempre con il cerino in mano. Dobbiamo togliere sofferenza al paziente, ma questa azione può anche causare il decesso. È la teoria del doppio effetto, e servono paletti ben definiti per il nostro ruolo».

Il procuratore Adelchi D’Ippolito è stato chiaro: «Per il giurista si tratta di delimitare il campo restando fuori dalla questione morale e filosofica. Il Codice lascia libertà di scelta alla persona e il diritto del medico a curare si arresta con il dissenso alla cura. La paura di morire è soggettiva, ma il legislatore deve garantire una giusta tutela giuridica. Dove finisce la libertà dell’uno inizia quella dell’altro, e nel sistema civile le libertà legittime hanno diritto di esistere. E il medico se va contro la volontà del paziente commette un reato. Ho potuto seguire di persona il caso Welby a Roma, e alla fine dei procedimenti l’anestesista di Cremona che intervenne non fu condannato».

E nelle vesti di giurista, il Procuratore D’Ippolito si è augurato che la futura nuova legge sul fine vita «sia una buona legge in grado di assicurare scelte consapevoli senza pregiudizi ideologici. Ad esempio, l’obiezione di coscienza è una posizione davvero seria e di grande nobiltà. E non è una questione di essere o meno credenti. Trovare il punto di equilibrio perfetto in un ambito così estremamente delicato è davvero difficile, ma le posizione vanno rispettate dal legislatore, e non vanno tralasciati dettagli importanti dal momento che si discute della vita delle persone e della professionalità dei medici».

articolo di Simone Bianchi - La Nuova Venezia - 9 aprile 2017

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