Il dibattito sul fine vita? Troppa emotività. Il giusto approccio a maggio in un convegno

Le polemiche sui suicidi assistiti in Svizzera e il duro confronto in Parlamento sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Il dibattito sul fine vita è tornato prepotentemente di attualità negli ultimi tempi. Un dibattito, però, che troppo spesso si affronta solo sull’onda dell’emotività, senza affrontare i nodi veramente salienti della questione.
Per fare un po’ di chiarezza, l’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri della Provincia di  Venezia, attraverso la Fondazione Ars Medica, in collaborazione con l’Ordine degli Psicologi del Veneto, ha organizzato una giornata di studi dal titolo significativo, Quando si muore, si muore soli?, in programma sabato 6 maggio all’Ateneo Veneto.
Un’iniziativa all’insegna della multidisciplinarietà che, oltre agli psicologi e ai medici, mette insieme anche gli infermieri, il mondo del volontariato, gli assistenti spirituali. Perché solo questo è il giusto approccio per un momento tanto delicato nella vita di una persona come quello dell’avvicinamento alla morte. Un percorso difficile, che tocca tante corde, che conosce molto bene e di cui ci parla Giovanni Poles, Direttore dell’Unità Complessa di Cure Palliative del distretto veneziano dell’Ulss 3 Serenissima.

Dottor Poles, innanzitutto: a chi sono rivolte le cure palliative?
Le cure palliative riguardano tutti i malati in fase avanzata o terminale di malattia, a cui non possono più essere proposte terapie specifiche. Il concetto di base, fondamentale, si sposta dal guarire al prendersi cura. Si prende in carico il paziente a 360 gradi: si affrontano e si gestiscono non solo aspetti strettamente clinici, come i sintomi o il dolore, che hanno un impatto importante sulla qualità di vita, ma anche gli aspetti psicologici-relazionali e le difficoltà del nucleo familiare, attraverso il lavoro di un team multidisciplinare, composto principalmente da medici, infermieri, psicologi, assistente sociale, assistente spirituale. Tante figure che si interfacciano in questo contesto. Il quadro di riferimento è la legge 38 del 2010 con i suoi successivi decreti attuativi.

Ma quanto è conosciuto questo strumento in vigore ormai da 7 anni?
La legge 38/2010 è applicata in modo sistematico per quanto riguarda le reti di cure palliative (hospice, nuclei di cure palliative territoriali, ecc.). A livello nazionale c’è una situazione a macchia di leopardo, ma sia nella provincia di Venezia, sia più in generale in Veneto siamo abbastanza avanti. Sono comunque necessari ulteriori interventi che dovranno coinvolgere, in maniera ancor più strutturata, sia il territorio che l’ospedale. In tal senso, stiamo facendo molta formazione sia nelle strutture ospedaliere, sia sul territorio. Sicuramente rispetto a 7 anni fa siamo a buon punto, abbiamo fatto grossi passi avanti.

Territorio, poi, è una delle parole chiave delle cure palliative…
Le cure palliative hanno la loro peculiarità soprattutto a livello territoriale. I setting di cura sono il domicilio, cioè la casa del paziente, e gli hospice. Bisogna sviluppare, poi, anche altri passaggi, come ad esempio gli ambulatori specifici a livello distrettuale o, in ospedale, la cultura trasversale nella modalità d’approccio alle cure palliative. È importante che medici e infermieri che lavorano in particolari unità operative abbiano questa mentalità, molto vicina, in medicina interna e in geriatria ad esempio, al concetto di slow medicine: fare le cose giuste nel momento giusto e in modo appropriato.
Un altro degli aspetti peculiari delle cure palliative è lo sviluppo delle cure simultanee: l’idea fondamentale è “fotografare” precocemente quei pazienti che in prospettiva avranno a che fare con le cure palliative, per costruire percorsi dinamici e per poterli prendere in carico intercettando tempestivamente i loro bisogni. Oncologo, palliativista, psicologo e infermiere lavorano insieme.

Quanti pazienti sono seguiti dalla Rete di Cure Palliative dell’Ulss 3 Serenissima?
Ci sono due unità operative complesse di cure palliative attive: la mia, quella in capo all’ex Ulss 12 veneziana, e quella in capo all’ex Ulss 13 di Mirano e Dolo. Ci mancano ancora, purtroppo, i dati di Chioggia. I pazienti entrati nella rete l’anno scorso sono stati circa 1.200. Nel 2015 i pazienti assistiti dall’allora Ulss 12 erano stati 827 per un totale di oltre 35mila giornate di ricovero in hospice o di assistenza domiciliare.
Di hospice ne abbiamo 3: al Policlinico San Marco e al centro Nazaret in terraferma, al Fatebenefratelli a Venezia con 41 posti letto totali. A Venezia e in terraferma l’attività di cure palliative domiciliari, da noi coordinata, è svolta in convenzione con AVAPO, che sarà presente anche al convegno del 6 maggio: una bella sinergia tra volontariato organizzato e istituzioni pubbliche.

Ma di che risposte ha davvero bisogno il malato in un momento tanto delicato del suo percorso?
Il malato ha bisogno innanzitutto di una grande capacità di ascolto, dobbiamo saper cogliere le sue paure, le sue aspettative, intercettare i suoi reali bisogni. Un lavoro non solo medico o infermieristico, ma anche psicologico-relazionale. Secondo: la capacità di rispondere in modo competente a questi bisogni, che non sono solo quelli clinico-assistenziali. Bisogna sapersi relazionare in contesti di cura particolari, allargati, in cui non ci sono solo il malato e le tante figure professionali, ma anche i familiari del paziente. Questo è il valore aggiunto delle cure palliative. In questo senso, bisogna farsi carico anche dalla famiglia, che deve diventare un alleato dell’équipe. Insomma: bisogna mettere la persona al centro. Il passaggio da fare è quello che dicevo all’inizio: dal “tu cure” al “tu care”.

Uno dei tratti caratterizzanti dell’accompagnamento alla morte, e anche del convegno del 6 maggio, è l’approccio multidisciplinare. Come si declina?
La multidisciplinarietà è fondamentale nelle cure palliative, il modello funziona bene e dovrebbe essere trasferito anche ad altre realtà sanitarie. Permette di avere una visione globale dell’ammalato e della sua famiglia, di sviluppare sinergie molto forti. Ciascuna figura professionale con le proprie competenze e con il proprio ruolo, senza sovrapposizioni, agisce in modo condiviso. Un elemento peculiare è la riunione d’équipe che si fa ogni settimana per confrontarsi sui casi specifici e discuterne sotto tutti i punti di vista.
Altra figura centrale, poi, soprattutto per le cure palliative di base, è quella del medico di medicina generale, che conosce più di tutti il paziente, la sua storia clinica e spesso anche la sua famiglia.

Dottor Poles, in questi ultimi tempi di fine vita si parla molto: i suicidi assistiti in Svizzera, le DAT… Eppure di cure palliative non si parla quasi mai. Secondo lei è un tema di cui si sta parlando nel modo giusto?
Purtroppo se ne sta parlando molto male: l’informazione molto spesso non è corretta, cosa di cui si rende conto chi lavora in questi ambiti. Viaggia sull’onda dell’emotività: è quindi facilmente fraintendibile e si presta molto a essere fonte di equivoci. Direi, quindi, che in questo momento c’è molta disinformazione, poca reale consapevolezza del problema.
La proposta di legge sulle DAT in linea di massima ci può stare: la volontà del paziente deve essere tenuta in considerazione come dicono già, del resto, il codice deontologico e il comitato nazionale di bioetica. C’è sicuramente la necessità di restituire a chi sta male tutte le opportunità di cura in risposta ai bisogni che ha: se uno muore con dolore, bisogna chiedersi prima di tutto se sia stato curato bene.
Oggi ci sono gli strumenti per far sì che fino all’ultimo ci sia una qualità di vita dignitosa e il paziente si senta accompagnato. Spesso è difficile far capire alle persone che, al di là delle DAT, c’è tutto un mondo, quello delle cure palliative, che può dare risposte molto concrete.

In questo dibattito si parla sempre del “morire con dignità”, come se questo volesse dire semplicemente decidere quando farlo...
Esattamente, ha colto nel segno. Le faccio un esempio che porto sempre quando facciamo formazione. Anni fa mi è capitato in reparto un anziano signore con un tumore allo stomaco, una bella persona. Una mattina mi chiama e mi dice: non ce la faccio più, voglio farla finita. Tutto era andato bene fino al giorno prima, la decisione appare incomprensibile. Così cerchiamo di capire dove sia il problema, se la domanda sia reale o se sia una richiesta d’aiuto diversa dettata da un bisogno diverso. Parlandone tra noi e con lui abbiamo scoperto che i figli, per problemi di lavoro, non andavano a trovarlo da una settimana.
Chiamati i figli, chiarito il momento di solitudine e forse anche il senso di momentaneo abbandono, ricucito questo aspetto, insomma, la domanda è caduta. Non era reale. Allora se noi ragioniamo in questi termini, le risposte che possiamo dare sono davvero diverse. Purtroppo, però, questo in televisione e sulla stampa non passa.
Per chi si occupa di cure palliative accompagnare non significa anticipare la morte o viceversa accanirsi ostinatamente nei confronti di una vita che si sta spegnendo. Trattare i sintomi che hanno un impatto devastante sulla qualità di vita , supportare il paziente e la famiglia in tutti quegli aspetti emotivi e psicologici che caratterizzano il percorso di malattia, dare risposte concrete a bisogni non solo clinici; Il messaggio che deve passare allora è questo: con le cure palliative anche in un momento così delicato come il fine vita, la qualità della vita può essere mantenuta e rispettata.
Non si muore soli, insomma, se si scelgono i percorsi giusti.

Giovanni Poles, Direttore Unità Complessa di Cure Palliative del distretto veneziano dell’Ulss 3 Serenissima e Coordinatore regionale Società Italiana Cure Palliative
Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Provincia di Venezia

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In allegato il programma dettagliato dell’evento

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Segreteria OMCeO Ve
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