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Home › Notizie medici › 1° Simposio Nazionale "Le decisioni di fine vita: quale il ruolo della desistenza terapeutica" ›1° Simposio Nazionale "Le decisioni di fine vita: quale il ruolo della desistenza terapeutica"
Sabato 24 maggio si è tenuto a Mestre il primo simposio nazionale “ Le decisioni di fine vita: quale il ruolo della desistenza terapeutica” organizzato dall’Omceo di Venezia e reso possibile grazie all’intuizione e al grande lavoro profuso dal collega Cristiano Samueli. La sala convegni dell’Hotel Michelangelo , gremita da un uditorio attento e partecipe, ha ascoltato dapprima l’intervento del Presidente Omceo , Maurizio Scassola. Questa relazione, come le altre, sono udibili integralmente sul nostro sito www.ordinemedicivenezia.it ; di seguito trovate scritte le note salienti di ogni intervento.
Affrontando il tema “ Il concetto di desistenza terapeutica nel nuovo codice di deontologia medica” il dottor Scassola ha così esordito : “Dobbiamo porci preliminarmente la domanda su che cosa oggi rappresenti, per la classe medica, il Codice di Deontologia. Desidero definire il Codice non tanto da un punto di vista giuridico ma da un punto di vista valoriale: uno strumento di condivisione attraverso il quale una categoria riconosce i propri valori e delinea i propri comportamenti; modello di riferimento per l’autodisciplina etico - comportamentale. Ma il Codice non è e non deve essere solo questo deve rappresentare anche strumento di confronto con la nostra Comunità; è una occasione di relazione e di garanzia per il Cittadino che lo dovrebbe vedere e interpretare come ambito di confronto con la categoria medica. Il Codice è anche occasione di costante rivisitazione dei nostri valori e dei nostri comportamenti nel confronto con una cornice sociale, etica e politica “fluida” in costante divenire.
Quindi il Codice di deontologia è uno dei CAPISALDI DI RIFERIMENTO nella nostra cornice storica ed istituzionale insieme all’art. 32 della Costituzione “…nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge …la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” ed alla Convenzione di Oviedo ”.. nessun intervento in campo sanitario può essere effettuato se non dopo che la persona a cui esso è diretto vi abbia dato un consenso libero ed informato”.
Anche il concetto di Desistenza Terapeutica è ben rappresentato nel Nostro Codice e viene individuato tra le attività di cura; un atto dovuto al paziente quando le procedure mediche si rivelano sproporzionate e senza una ragionevole speranza. Identifica un momento di non ritorno e di progressivo cambiamento degli obiettivi assistenziali: dal sostegno vitale all’accompagnamento di fine vita. Se un simile riferimento verrà fatto in maniera esplicita dal legislatore questo permetterà di non equivocare tra trattamenti da attuare come percorso di cura anche in assenza di direttive anticipate chiare, da quelli che invece si configurerebbero soltanto come accanimento terapeutico o peggio eutanasia.
Oggi pazienti, familiari e medici sono sostanzialmente soli nel gestire i momenti terminali della vita. E’ drammatico constatare come sia ancora profonda l’asimmetria informativa e relazionale tra il medico (ma anche gli altri operatori della salute), la persona e i suoi familiari! E’ proprio questa mancanza di relazione che crea disagio, sofferenza, senso di inadeguatezza, di abbandono; questi “sentimenti” permeano diffusamente l’ambiente assistenziale e coinvolgono non solo il paziente e i suoi cari ma tutti gli operatori i quali, non sono sostenuti da una organizzazione delle cure che crea empatia e condivisione delle scelte. L’organizzazione viene
invece vissuta come l’ennesimo ostacolo relazionale – terapeutico; un contenitore che finalizza i propri interventi alla risoluzione di problemi non alla elaborazione di strategie e di decisioni per quella persona, per quel nucleo familiare, inserito in quel contesto sociale che ha a disposizione risorse certe.
Noi non vogliamo che “ ..il diritto delle persone all’assistenza nel morire diventi un “problema” per l’organizzazione, per i costi, per la mancanza di accoglienza alla famiglia nei luoghi di cura….per noi tutti non si tratta mai solo di morire ma di poter vivere quell’eccezionale momento del vivere che è il morire....” (tratto da una e-mail inviatami dall’amica Leda).
E’ da questo cambiamento di prospettiva che dobbiamo porci la domanda se sia realmente necessaria una legge che regolamenti questa relazione e che identifichi i diritti ed i doveri o se invece abbiamo bisogno, almeno prioritariamente, di individuare insieme la riorganizzazione dei percorsi di cura con il coinvolgimento dei “portatori di interesse”. Una Legge può creare il “cambiamento” o è prioritario il confronto all’interno delle comunità per individuare percorsi, procedure, strutture di accoglienza, standard organizzativi e formativi interdisciplinari, audit interni alle unità operative ed ai dipartimenti e tra questi soggetti ed i curanti per definire in questo tempo, in quel luogo, in quella cornice sociale e assistenziale quali siano i percorsi e le attività a sostegno della umanizzazione delle cure e della dignità della persona.
Noi crediamo che neanche la Politica debba essere lasciata sola a decidere ma che le nostre comunità debbano confrontarsi stabilmente su questi temi che rappresentano un indicatore della capacità di “accoglienza” e di “accompagnamento” della persona nel suo stato di fragilità più profondo psichico, fisico, sociale, assistenziale, etico e morale che determinano un dolore esistenziale e non solo fisico, globale. E’ nel confronto con questo “dolore” che la comunità esprime il proprio livello di Democrazia che noi intendiamo anche come capacità di costruire un rete di relazioni e di attività integrate intorno alla persona. Noi crediamo che quando questa rete esiste ed è efficace, strategica ( cioè finalizzata, pre-definita nel suo percorso e nelle sue attività) siamo sulla strada giusta e forse abbiamo bisogno non tanto di leggi ma di organizzazione, di partecipazione, di responsabilità e di solidarietà.
E’ certo che l’agire in modo trasparente, documentabile (non vissuto e sofferto come atto puramente burocratico!) e strategico aiuti il medico a mantenere l'alleanza terapeutica con il paziente soprattutto nel momento del passaggio fra la vita e la morte che rimane, per una comunità, anche un indicatore del proprio livello di identificazione culturale e sociale.
E’ così che la desistenza non diviene abbandono ma capacità di scegliere e di decidere insieme. E’ proprio in questi momenti che la comunicazione tra Colleghi rappresenta un momento emblematico della capacità relazionale/comunicativa del sistema delle cure; non solo tra medici della stessa Unità Operativa ma, ad esempio, tra medici di strutture di cura e medici di famiglia, tra medici ed altri operatori della salute.
Quindi la desistenza dovrebbe essere un comportamento, un progetto intrapreso alla fine di un percorso relazionale complesso. Questa è la vera difficoltà: trovare il tempo, il modo, il luogo e la giusta relazione. I medici hanno la necessità di confrontarsi sui temi della qualità della vita e del morire anche perché la pluralità delle culture e dei valori ci obbliga a nuovi orizzonti relazionali ed etici; è il senso stesso del vivere comunitario che ci obbliga al confronto con gli altri, nella ricerca delle comuni radici e nella complessità degli obiettivi di cura. In questo senso la Medicina è una grande "opportunità"ed una grande “sfida”: ci obbliga a fare sintesi tra Scienza ed Arte; tra principi e regole della ricerca, della cura. Dobbiamo combattere il nichilismo che produce le due grandi “rinunce”: agire per sopprimere e chiudere gli occhi; ovvero il nichilismo soppressivo - eutanasico e quello suicida della non responsabilità, di colui che non vuole osservare, che non vuol capire, che non vuole decidere. Desidero ricordare una parte per me importante dell’intervento di Andrè Glucksmann in coda alle polemiche sulle affermazione di Benedetto XVI a Ratisbona: “…nel 21° secolo il nichilismo prospera non solo proclamando la relatività dei valori ma anche trasformando la "forza del fare" in capacità "del dis-fare" e incentivando l'individuo ad agire secondo i dettami di un relativismo post-moderno che non ha come obiettivo il costruire…” ma solo il "contraddire". E’ quotidiana l’esperienza di assistere a dibattiti in cui il vero obiettivo è solo la pura contrapposizione, l’interferire, l’ostacolare, quasi mai mediare e proporre. E’ questa la nostra vera battaglia : attivare un percorso di cura alla persona che veda il rispetto delle sue volontà e della sua dignità; attivare un luogo di confronto permanente sui temi dell’accompagnamento nel fine della vita; combattere gli atteggiamenti ideologici che sono ostacolo insormontabile nella ricerca dei comuni valori. “…Democrazia è quell’ ordine che mantiene vivo il conflitto tra i valori, quintessenza di un sistema democratico, il conflitto viene reso produttivo, produttivo di nuove idee, di nuovi ceti politici, di nuovi programmi, di nuove risposte alla domanda sociale...”. Dobbiamo osservare, dialogare e decidere con il coraggio e la delicatezza di chi guarda negli occhi il familiare morente.
Il Nichilismo è morte umana, culturale, sociale, morale ed etica ed è negazione dell’atto medico così come dell’atto d’amore.
Alle nostre Comunità ed alla Politica chiediamo di fare insieme questo complesso ma ineludibile cammino “.
Nel successivo intervento il dottor Davide Mazzon, primario anestesista di Belluno , ha esposto il tema “ Accanimento, eutanasia, desistenza terapeutica. Il punto di vista dell’anestesista-rianimatore”. Ha esordito facendo chiarezza sulla terminologia e ricordando che il codice deontologico pone il divieto sia dell’eutanasia ( “uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale su richiesta del paziente stesso”) che dell’accanimento terapeutico ( “persistenza d’uso di procedure diagnostiche inefficaci o inutili sul piano dell’evoluzione positiva e miglioramento del paziente sia in termini clinici che della qualità della vita”). Sottolineando l’ambiguità del termine accanimento terapeutico ( “ un ossimoro”) Mazzon propone di adottare il concetto di “provvedimenti diagnostico/terapeutici inappropriati in eccesso”. Ha poi affermato che l’attuale dibattito sui media è improntato su toni cupi (“troppe contrapposizioni ideologiche”) che non aiutano certamente un sereno svolgersi del dibattito su questioni così importanti.
Il dottor Luciano Orsi , primario anestesista di Crema ha sostenuto che nel fine vita “ si continua ad assistere il paziente alleviando le sue sofferenze senza abbandonarlo”. Il termine palliativo deriva da palio, coperta; è l’atto del coprire col mantello chi ha freddo. E’ cura attiva e totale dei malati la cui malattia di base non risponde più ai trattamenti. Fondamentale il controllo del dolore ma anche degli altri sintomi, dei problemi psicologici e spirituali. Centro della cura palliativa, secondo Orsi, è la qualità della vita giudicata dal paziente.
Nel suo intervento Don Corrado Cannizzaro, professore di Teologia Morale a Venezia, ha presentato all’uditorio “La posizione della Chiesa Cattolica nei confronti della desistenza terapeutica”. Punto di partenza è il desistere dal prolungare inutilmente l’agonia di un paziente ; ha poi svolto la sua relazione partendo da una prospettiva morale e antropologica in contesto teologico. Facendo riferimento a numerosi documenti della Chiesa, il prof. Cannizzaro ha affermato che è lecito rinunciare al trattamento , ”… con la desistenza non si vuole provocare la morte ma si accetta di non poterla impedire”. Le decisioni devono essere prese dal paziente ( se ne ha la competenza e capacità) e lo si deve curare con mezzi oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La desistenza terapeutica, secondo don Cannizzaro, trova pertanto il suo contesto nell’imminenza di morte inevitabile , come principio di fondo c’è dapprima l’accoglimento della morte come dimensione dell’uomo e lo sforzo comune di umanizzare la morte, poi come criterio di giudizio morale, il dovere di curarsi e di farsi curare (vincolante ma non assoluto) sempre verificando la volontà del paziente. La Chiesa Cattolica basa i propri insegnamenti su un’antropologia filiale , ovvero sulla naturale predisposizione dell’uomo , credente o meno, all’aprirsi alla relazione con il mondo. Dare la morte è pertanto un attentato alla relazione filiale, un’offesa a Dio e una violenza sull’uomo. La desistenza terapeutica , ha concluso don Cannizzaro, significa riconoscere che la relazione filiale non è in mano all’uomo. La desistenza è lecita purchè nell’imminenza di morte inevitabile e quando vi è una sproporzione tra il trattamento e la volontà ragionevole del paziente.
Ha poi preso la parola il prof. Massimo Cacciari, filosofo e sindaco di Venezia. Ha esordito complimentandosi con l’Omceo di Venezia perché l’organizzazione di questo simposio dimostra una maturità etica straordinaria, su questioni di confine così importanti, “problematiche di enorme fascino e di enorme impegno”. Riferendosi poi alla relazione del dott. Mazzon, Cacciari ha affermato “…è molto significativo che i giornali confondano desistenza con eutanasia perché in una relazione è difficile intendersi senza fra-intendersi”. Entrando nel vivo del problema “…la scienza medica dovrebbe fare un approfondimento storico, di storia della medicina, di storia della morte della medicina, perché la scienza medica non è attrezzata culturalmente ad affrontare il problema di quella cura specifica che rimane cura ma che guarda il malato allorché quel malato deve essere accompagnato a morire. Dove è stato insegnato questo? E’ scienza questa? La scienza è : questo è il fegato, funziona così, questo è il cuore, funziona così. Il processo di specializzazione pur avendo fatto compiere alla medicina moderna progressi straordinari, allontana inevitabilmente da quel tipo di cura che necessariamente deve prendere in considerazione la persona. Ma dov’è la scienza della persona? Dove sta la medicina della persona? Chi è che è competente a quella cura? Chi è stato educato ad essere competente a quella cura? “ Su questo primo “colossale “ problema Cacciari dice : “ è possibile affrontarlo rivedendo i curricula medici? Inseriamo questi insegnamenti ? “ Secondo la sua esperienza gli studenti sicuramente considereranno questi come esami facoltativi, secondari. Parlando poi delle cure al morente Cacciari ha così espresso il suo pensiero. ” Questo tipo di cura che è proprio la cura che cura l’angustia, la cura della mia cura per eccellenza, per antonomasia che è la mia angustia fondamentale di trovarmi faccia a faccia con la vita e con la morte. Affrontare questo tema come voi lo avete affrontato presuppone un’educazione al morire che è totalmente assente dalla nostra cultura, dalla nostra società. La nostra società evita il morire, rimuove il morire, allontana il morire, nasconde il morire. Il malato, il paziente, i familiari in quel momento sono assolutamente senza parole di fronte alla morte, non hanno mai pensato alla morte, non sono mai morti. Morire è un verbum, non è un fatto. O nella vita pensi al tuo morire e fai del tuo morire elemento della tua vita, allora giungi maturo a quel momento, puoi liberamente, discutendo in relazione affrontare quella cura, ma se tu sei assolutamente analfabeta di fronte a questo passo fondamentale della tua vita, se anche quando sei arrivato a quel momento i familiari te lo nascondono - come avviene nel 90% dei casi - allora sei tu, è il paziente stesso che si sente senza parole, avverte che sta morendo ma non è che non ne vuole parlare, non ne sa parlare e allora chiede lui stesso l’accanimento terapeutico, mettimi gli alberi di natale ( le tre,quattro flebo …) sennò cosa dico alla morte , nulla.” Ha continuato Cacciari “ La nostra società evita, impedisce il morire come verbum, il mio morire diviene un passo muto, impersonale, rimosso, nascosto. Ormai non moriamo più, crepiamo, perché si muore assieme, si crepa invece da soli. E’ necessario allora imparare a morire leggendo certe cose, fin dal tempo della scuola, imparare la finitezza.” Concludendo il suo intervento il prof Cacciari ha auspicato , quanto meno per le cure di fine vita, il superamento dello specialismo a favore della ricomprensione di una visione personalistico-olistica basata sul dialogo.
Il Presidente Maurizio Scassola , cogliendo l’attimo, ha comunicato ai presenti e al sindaco Cacciari la volontà dell’Ordine dei medici e odontoiatri di Venezia di dare vita , proprio nella nostra città, ad una “ Agorà ” permanente sulla desistenza terapeutica, su questa “tematica di democrazia” . Cacciari ha dato immediatamente il suo assenso.
Ha poi preso la parola Beppino Englaro, padre di Eluana , la ragazza che da 16 anni e 4 mesi si trova in coma vegetativo, definita dal padre “purosangue della libertà” , una persona dotata di una incredibile sensibilità e vivacità ( “impossibile da fermare – dice il padre – perché diventava come l’acqua”) , che aveva espresso ripetutamente ai familiari il rifiuto all’accanimento terapeutico qualora lei fosse “ …invasa da tubi e mani estranee…”. Beppino Englaro conduce da anni la sua battaglia per far rispettare la volontà di sua figlia ; 16 anni fa è mancato il dialogo con i medici , Beppino Englaro vuole a tutti i costi riprendere oggi questo dialogo.
E’ stata poi la volta del dott. Cricelli, medico di famiglia di un piccolo paese vicino Firenze. Non è vero che si muore sempre in Ospedale, ha affermato, l’80% dei processi di fine vita si conclude a casa propria , poiché l’Italia è fatta di piccoli paesi, non solo di grandi città. Il medico di medicina generale è il medico della famiglia e della comunità, ragiona con la mentalità di quelli di casa, deve trattare con chiunque si presenti perché questo fa parte della vita. E’ una consolazione morire a casa, e per i parenti e amici lo è il partecipare al lutto. Il medico di medicina generale è amico , affronta e risolve problemi pratici, trascorre del tempo con la persona sofferente, deve gestire le verità e le angosce, i dubbi, il dolore. La sofferenza non è il morire, ma il sapere di dover morire. Purtroppo il medico di medicina generale è “impreparato” a questo; il 75% dei mmg rifiuta le responsabilità di fine vita e non pratica la desistenza terapeutica mentre il 92% afferma di aver bisogno di formazione sulla gestione delle cure di fine vita.
Il prof. Corrado Viafora, professore di Bioetica all’Università di Padova, ha svolto il tema : “Interventi al limite: la desistenza terapeutica in ambito neonatale”. Ha affermato che grandi sono stati i progressi della medicina nel campo della rianimazione di neonati gravemente prematuri: si è passati dal “lasciar fare alla natura” all’interventismo spinto al limite (23/24 settimane di gestazione), con il rischio di gravi danni neurologici e di disabilità residua. Viafora ha parlato di ambivalenza delle potenzialità tecnologiche, del riconoscimento del bambino come soggetto e del rapporto con la genitorialità, della necessità/difficoltà del coinvolgimento decisionale dei genitori e infine dell’incertezza prognostica. La riflessione va fatta non solo sulla sospensione delle cure ma anche sull’inizio delle cure, sul decidersi delle cure, se intervenire o meno, su come valutare l’eventuale disabilità residua. Viafora ha poi trattato le diverse problematiche legate all’approccio interventista, a quello statistico ( che significa porre dei limiti) e all’approccio individualizzato (clinico) sul neonato che presenta segni di vitalità autonoma. E’ necessario prendere la decisione più rispettosa per la dignità umana di questo bambino facendosi guidare dal criterio del bene prezioso della vita (diritto alla vita) , istanza etica che si impone con forza all’equipe medica e ai genitori. Alla 25° settimana di gestazione sussistono gravi rischi di complicanze neurologiche in caso di sopravvivenza, si impone pertanto la gestione responsabile dei mezzi che la tecnologia mette a disposizione ( non tutto ciò che è possibile fare è lecito fare) . C’è il rischio dell’uso della tecnologia sempre più automatico; ma non può essere la tecnica – ha concluso il prof Viafora - a dettare le leggi.
L’ultimo intervento è stato quello del senatore Ignazio Marino, chirurgo di fama mondiale, specialista nel trapianto di fegato, fautore di un progetto di legge per il riconoscimento del testamento biologico. Marino ha ricordato come negli USA il testamento biologico è legge da circa 20 anni ; è cosa necessaria poiché i miglioramenti tecnologici in medicina impongono nuove riflessioni sulla vita e sulla morte. Ha citato il suo grande maestro, Thomas Starzl, che sosteneva che l’esistenza di una tecnologia non costituisce mai l’obbligo al suo utilizzo. Partendo dal caso di Karen Quinlan (New Jersey), in coma da dieci anni, la Corte Suprema USA ha sentenziato : le cure, se inutili, possono essere sospese. Parlando di testamento biologico ha parlato della nomina di un fiduciario che ci rappresenta quando noi non lo possiamo più fare. Parla di una decisione ( di desistere dalle cure di fine vita) condivisa con i familiari, con i parenti o gli amici, con i religiosi, con quanti sono in relazione importante, significativa con quel malato. L’art. 32 della nostra costituzione parla del consenso alla terapia; lo stesso consenso – sostiene il prof Marino - lo devo esprimere ( o lo esprimono gli altri) per la mia fine vita. Perché deve decidere un altro che non mi conosce, per me? Il testamento biologico deve essere tutt’altro che una “burocratizzazione di fine vita”. La Chiesa Cattolica, il codice deontologico norma la vita/morte; perché uno stato laico, si chiede Marino, non lo può fare? E’ il momento di scrivere questa legge.
Alle relazioni è seguito poi un breve dibattito; il dottor Mazzon ha ribadito la necessità di stimolare la ricerca scientifica sui momenti di fine vita e , riferendosi al testamento biologico , ha sostenuto che il dibattito oggi è troppo ideologizzato,duro. La legge sul testamento biologico deve essere leggera, non burocratica ( “guai se si deve passare attraverso il notaio”) ed ha sostenuto con forza la non incriminabilità dei medici che soddisfano i desideri dei pazienti giunti alla fine vita. Il prof. Viafora ha affermato la necessità che in questo confronto non tattico, ma onesto, si debba dare ascolto anche alle istanze dei comitati etici, decidendo su basi ben argomentate . Ha infine affermato la necessità di aumentare la formazione bioetica nel corso degli studi medici. L’attuale “militarizzazione “ del dibattito sulle questioni di fine vita – ha sostenuto Orsi – verrebbe sicuramente modificato dall’avvicinarsi alla realtà dei malati in ospedale, “bisogna andare in loco” , avvicinarsi alla realtà , basta teoria.
E’ intervenuto infine il Vice Presidente dell’Omceo di Venezia, Salvatore Ramuscello, che si è dapprima congratulato col collega Cristiano Samueli, vero artefice di questo primo Simposio nazionale, poi ha fatto questa riflessione . “ …di fronte agli eventi di fine vita come medico ho chiaro quale deve essere il mio comportamento e lo metto in atto secondo scienza e coscienza. Anche dal punto di vista deontologico so che cosa devo fare e mi sento a posto con la coscienza. Ma nelle decisioni di fine vita c’è un problema tuttora irrisolto, ed è quello della Magistratura. E’ necessario, prima di qualunque altra cosa, depenalizzare l’atto medico relativo alle decisioni di fine vita”.
Rispondendo a questa precisa affermazione del dottor Ramuscello, il senatore Ignazio Marino ha testualmente detto “ Al Senato c’è la volontà di arrivare ad affrontare il problema della depenalizzazione dell’atto medico e mi impegno a trovare un accordo con la maggioranza per la depenalizzazione dell’atto medico e a farlo entro questa legislatura. La soluzione alle problematiche di fine vita va trovata all’interno del luogo di cura, non nel tribunale”.
Con la consegna ai relatori di un omaggio ( opera in vetro dei maestri di Murano ) il Simposio si è sciolto attorno alle ore 14.00 .
Franco Fabbro
Affrontando il tema “ Il concetto di desistenza terapeutica nel nuovo codice di deontologia medica” il dottor Scassola ha così esordito : “Dobbiamo porci preliminarmente la domanda su che cosa oggi rappresenti, per la classe medica, il Codice di Deontologia. Desidero definire il Codice non tanto da un punto di vista giuridico ma da un punto di vista valoriale: uno strumento di condivisione attraverso il quale una categoria riconosce i propri valori e delinea i propri comportamenti; modello di riferimento per l’autodisciplina etico - comportamentale. Ma il Codice non è e non deve essere solo questo deve rappresentare anche strumento di confronto con la nostra Comunità; è una occasione di relazione e di garanzia per il Cittadino che lo dovrebbe vedere e interpretare come ambito di confronto con la categoria medica. Il Codice è anche occasione di costante rivisitazione dei nostri valori e dei nostri comportamenti nel confronto con una cornice sociale, etica e politica “fluida” in costante divenire.
Quindi il Codice di deontologia è uno dei CAPISALDI DI RIFERIMENTO nella nostra cornice storica ed istituzionale insieme all’art. 32 della Costituzione “…nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge …la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” ed alla Convenzione di Oviedo ”.. nessun intervento in campo sanitario può essere effettuato se non dopo che la persona a cui esso è diretto vi abbia dato un consenso libero ed informato”.
Anche il concetto di Desistenza Terapeutica è ben rappresentato nel Nostro Codice e viene individuato tra le attività di cura; un atto dovuto al paziente quando le procedure mediche si rivelano sproporzionate e senza una ragionevole speranza. Identifica un momento di non ritorno e di progressivo cambiamento degli obiettivi assistenziali: dal sostegno vitale all’accompagnamento di fine vita. Se un simile riferimento verrà fatto in maniera esplicita dal legislatore questo permetterà di non equivocare tra trattamenti da attuare come percorso di cura anche in assenza di direttive anticipate chiare, da quelli che invece si configurerebbero soltanto come accanimento terapeutico o peggio eutanasia.
Oggi pazienti, familiari e medici sono sostanzialmente soli nel gestire i momenti terminali della vita. E’ drammatico constatare come sia ancora profonda l’asimmetria informativa e relazionale tra il medico (ma anche gli altri operatori della salute), la persona e i suoi familiari! E’ proprio questa mancanza di relazione che crea disagio, sofferenza, senso di inadeguatezza, di abbandono; questi “sentimenti” permeano diffusamente l’ambiente assistenziale e coinvolgono non solo il paziente e i suoi cari ma tutti gli operatori i quali, non sono sostenuti da una organizzazione delle cure che crea empatia e condivisione delle scelte. L’organizzazione viene
invece vissuta come l’ennesimo ostacolo relazionale – terapeutico; un contenitore che finalizza i propri interventi alla risoluzione di problemi non alla elaborazione di strategie e di decisioni per quella persona, per quel nucleo familiare, inserito in quel contesto sociale che ha a disposizione risorse certe.
Noi non vogliamo che “ ..il diritto delle persone all’assistenza nel morire diventi un “problema” per l’organizzazione, per i costi, per la mancanza di accoglienza alla famiglia nei luoghi di cura….per noi tutti non si tratta mai solo di morire ma di poter vivere quell’eccezionale momento del vivere che è il morire....” (tratto da una e-mail inviatami dall’amica Leda).
E’ da questo cambiamento di prospettiva che dobbiamo porci la domanda se sia realmente necessaria una legge che regolamenti questa relazione e che identifichi i diritti ed i doveri o se invece abbiamo bisogno, almeno prioritariamente, di individuare insieme la riorganizzazione dei percorsi di cura con il coinvolgimento dei “portatori di interesse”. Una Legge può creare il “cambiamento” o è prioritario il confronto all’interno delle comunità per individuare percorsi, procedure, strutture di accoglienza, standard organizzativi e formativi interdisciplinari, audit interni alle unità operative ed ai dipartimenti e tra questi soggetti ed i curanti per definire in questo tempo, in quel luogo, in quella cornice sociale e assistenziale quali siano i percorsi e le attività a sostegno della umanizzazione delle cure e della dignità della persona.
Noi crediamo che neanche la Politica debba essere lasciata sola a decidere ma che le nostre comunità debbano confrontarsi stabilmente su questi temi che rappresentano un indicatore della capacità di “accoglienza” e di “accompagnamento” della persona nel suo stato di fragilità più profondo psichico, fisico, sociale, assistenziale, etico e morale che determinano un dolore esistenziale e non solo fisico, globale. E’ nel confronto con questo “dolore” che la comunità esprime il proprio livello di Democrazia che noi intendiamo anche come capacità di costruire un rete di relazioni e di attività integrate intorno alla persona. Noi crediamo che quando questa rete esiste ed è efficace, strategica ( cioè finalizzata, pre-definita nel suo percorso e nelle sue attività) siamo sulla strada giusta e forse abbiamo bisogno non tanto di leggi ma di organizzazione, di partecipazione, di responsabilità e di solidarietà.
E’ certo che l’agire in modo trasparente, documentabile (non vissuto e sofferto come atto puramente burocratico!) e strategico aiuti il medico a mantenere l'alleanza terapeutica con il paziente soprattutto nel momento del passaggio fra la vita e la morte che rimane, per una comunità, anche un indicatore del proprio livello di identificazione culturale e sociale.
E’ così che la desistenza non diviene abbandono ma capacità di scegliere e di decidere insieme. E’ proprio in questi momenti che la comunicazione tra Colleghi rappresenta un momento emblematico della capacità relazionale/comunicativa del sistema delle cure; non solo tra medici della stessa Unità Operativa ma, ad esempio, tra medici di strutture di cura e medici di famiglia, tra medici ed altri operatori della salute.
Quindi la desistenza dovrebbe essere un comportamento, un progetto intrapreso alla fine di un percorso relazionale complesso. Questa è la vera difficoltà: trovare il tempo, il modo, il luogo e la giusta relazione. I medici hanno la necessità di confrontarsi sui temi della qualità della vita e del morire anche perché la pluralità delle culture e dei valori ci obbliga a nuovi orizzonti relazionali ed etici; è il senso stesso del vivere comunitario che ci obbliga al confronto con gli altri, nella ricerca delle comuni radici e nella complessità degli obiettivi di cura. In questo senso la Medicina è una grande "opportunità"ed una grande “sfida”: ci obbliga a fare sintesi tra Scienza ed Arte; tra principi e regole della ricerca, della cura. Dobbiamo combattere il nichilismo che produce le due grandi “rinunce”: agire per sopprimere e chiudere gli occhi; ovvero il nichilismo soppressivo - eutanasico e quello suicida della non responsabilità, di colui che non vuole osservare, che non vuol capire, che non vuole decidere. Desidero ricordare una parte per me importante dell’intervento di Andrè Glucksmann in coda alle polemiche sulle affermazione di Benedetto XVI a Ratisbona: “…nel 21° secolo il nichilismo prospera non solo proclamando la relatività dei valori ma anche trasformando la "forza del fare" in capacità "del dis-fare" e incentivando l'individuo ad agire secondo i dettami di un relativismo post-moderno che non ha come obiettivo il costruire…” ma solo il "contraddire". E’ quotidiana l’esperienza di assistere a dibattiti in cui il vero obiettivo è solo la pura contrapposizione, l’interferire, l’ostacolare, quasi mai mediare e proporre. E’ questa la nostra vera battaglia : attivare un percorso di cura alla persona che veda il rispetto delle sue volontà e della sua dignità; attivare un luogo di confronto permanente sui temi dell’accompagnamento nel fine della vita; combattere gli atteggiamenti ideologici che sono ostacolo insormontabile nella ricerca dei comuni valori. “…Democrazia è quell’ ordine che mantiene vivo il conflitto tra i valori, quintessenza di un sistema democratico, il conflitto viene reso produttivo, produttivo di nuove idee, di nuovi ceti politici, di nuovi programmi, di nuove risposte alla domanda sociale...”. Dobbiamo osservare, dialogare e decidere con il coraggio e la delicatezza di chi guarda negli occhi il familiare morente.
Il Nichilismo è morte umana, culturale, sociale, morale ed etica ed è negazione dell’atto medico così come dell’atto d’amore.
Alle nostre Comunità ed alla Politica chiediamo di fare insieme questo complesso ma ineludibile cammino “.
Nel successivo intervento il dottor Davide Mazzon, primario anestesista di Belluno , ha esposto il tema “ Accanimento, eutanasia, desistenza terapeutica. Il punto di vista dell’anestesista-rianimatore”. Ha esordito facendo chiarezza sulla terminologia e ricordando che il codice deontologico pone il divieto sia dell’eutanasia ( “uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale su richiesta del paziente stesso”) che dell’accanimento terapeutico ( “persistenza d’uso di procedure diagnostiche inefficaci o inutili sul piano dell’evoluzione positiva e miglioramento del paziente sia in termini clinici che della qualità della vita”). Sottolineando l’ambiguità del termine accanimento terapeutico ( “ un ossimoro”) Mazzon propone di adottare il concetto di “provvedimenti diagnostico/terapeutici inappropriati in eccesso”. Ha poi affermato che l’attuale dibattito sui media è improntato su toni cupi (“troppe contrapposizioni ideologiche”) che non aiutano certamente un sereno svolgersi del dibattito su questioni così importanti.
Il dottor Luciano Orsi , primario anestesista di Crema ha sostenuto che nel fine vita “ si continua ad assistere il paziente alleviando le sue sofferenze senza abbandonarlo”. Il termine palliativo deriva da palio, coperta; è l’atto del coprire col mantello chi ha freddo. E’ cura attiva e totale dei malati la cui malattia di base non risponde più ai trattamenti. Fondamentale il controllo del dolore ma anche degli altri sintomi, dei problemi psicologici e spirituali. Centro della cura palliativa, secondo Orsi, è la qualità della vita giudicata dal paziente.
Nel suo intervento Don Corrado Cannizzaro, professore di Teologia Morale a Venezia, ha presentato all’uditorio “La posizione della Chiesa Cattolica nei confronti della desistenza terapeutica”. Punto di partenza è il desistere dal prolungare inutilmente l’agonia di un paziente ; ha poi svolto la sua relazione partendo da una prospettiva morale e antropologica in contesto teologico. Facendo riferimento a numerosi documenti della Chiesa, il prof. Cannizzaro ha affermato che è lecito rinunciare al trattamento , ”… con la desistenza non si vuole provocare la morte ma si accetta di non poterla impedire”. Le decisioni devono essere prese dal paziente ( se ne ha la competenza e capacità) e lo si deve curare con mezzi oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La desistenza terapeutica, secondo don Cannizzaro, trova pertanto il suo contesto nell’imminenza di morte inevitabile , come principio di fondo c’è dapprima l’accoglimento della morte come dimensione dell’uomo e lo sforzo comune di umanizzare la morte, poi come criterio di giudizio morale, il dovere di curarsi e di farsi curare (vincolante ma non assoluto) sempre verificando la volontà del paziente. La Chiesa Cattolica basa i propri insegnamenti su un’antropologia filiale , ovvero sulla naturale predisposizione dell’uomo , credente o meno, all’aprirsi alla relazione con il mondo. Dare la morte è pertanto un attentato alla relazione filiale, un’offesa a Dio e una violenza sull’uomo. La desistenza terapeutica , ha concluso don Cannizzaro, significa riconoscere che la relazione filiale non è in mano all’uomo. La desistenza è lecita purchè nell’imminenza di morte inevitabile e quando vi è una sproporzione tra il trattamento e la volontà ragionevole del paziente.
Ha poi preso la parola il prof. Massimo Cacciari, filosofo e sindaco di Venezia. Ha esordito complimentandosi con l’Omceo di Venezia perché l’organizzazione di questo simposio dimostra una maturità etica straordinaria, su questioni di confine così importanti, “problematiche di enorme fascino e di enorme impegno”. Riferendosi poi alla relazione del dott. Mazzon, Cacciari ha affermato “…è molto significativo che i giornali confondano desistenza con eutanasia perché in una relazione è difficile intendersi senza fra-intendersi”. Entrando nel vivo del problema “…la scienza medica dovrebbe fare un approfondimento storico, di storia della medicina, di storia della morte della medicina, perché la scienza medica non è attrezzata culturalmente ad affrontare il problema di quella cura specifica che rimane cura ma che guarda il malato allorché quel malato deve essere accompagnato a morire. Dove è stato insegnato questo? E’ scienza questa? La scienza è : questo è il fegato, funziona così, questo è il cuore, funziona così. Il processo di specializzazione pur avendo fatto compiere alla medicina moderna progressi straordinari, allontana inevitabilmente da quel tipo di cura che necessariamente deve prendere in considerazione la persona. Ma dov’è la scienza della persona? Dove sta la medicina della persona? Chi è che è competente a quella cura? Chi è stato educato ad essere competente a quella cura? “ Su questo primo “colossale “ problema Cacciari dice : “ è possibile affrontarlo rivedendo i curricula medici? Inseriamo questi insegnamenti ? “ Secondo la sua esperienza gli studenti sicuramente considereranno questi come esami facoltativi, secondari. Parlando poi delle cure al morente Cacciari ha così espresso il suo pensiero. ” Questo tipo di cura che è proprio la cura che cura l’angustia, la cura della mia cura per eccellenza, per antonomasia che è la mia angustia fondamentale di trovarmi faccia a faccia con la vita e con la morte. Affrontare questo tema come voi lo avete affrontato presuppone un’educazione al morire che è totalmente assente dalla nostra cultura, dalla nostra società. La nostra società evita il morire, rimuove il morire, allontana il morire, nasconde il morire. Il malato, il paziente, i familiari in quel momento sono assolutamente senza parole di fronte alla morte, non hanno mai pensato alla morte, non sono mai morti. Morire è un verbum, non è un fatto. O nella vita pensi al tuo morire e fai del tuo morire elemento della tua vita, allora giungi maturo a quel momento, puoi liberamente, discutendo in relazione affrontare quella cura, ma se tu sei assolutamente analfabeta di fronte a questo passo fondamentale della tua vita, se anche quando sei arrivato a quel momento i familiari te lo nascondono - come avviene nel 90% dei casi - allora sei tu, è il paziente stesso che si sente senza parole, avverte che sta morendo ma non è che non ne vuole parlare, non ne sa parlare e allora chiede lui stesso l’accanimento terapeutico, mettimi gli alberi di natale ( le tre,quattro flebo …) sennò cosa dico alla morte , nulla.” Ha continuato Cacciari “ La nostra società evita, impedisce il morire come verbum, il mio morire diviene un passo muto, impersonale, rimosso, nascosto. Ormai non moriamo più, crepiamo, perché si muore assieme, si crepa invece da soli. E’ necessario allora imparare a morire leggendo certe cose, fin dal tempo della scuola, imparare la finitezza.” Concludendo il suo intervento il prof Cacciari ha auspicato , quanto meno per le cure di fine vita, il superamento dello specialismo a favore della ricomprensione di una visione personalistico-olistica basata sul dialogo.
Il Presidente Maurizio Scassola , cogliendo l’attimo, ha comunicato ai presenti e al sindaco Cacciari la volontà dell’Ordine dei medici e odontoiatri di Venezia di dare vita , proprio nella nostra città, ad una “ Agorà ” permanente sulla desistenza terapeutica, su questa “tematica di democrazia” . Cacciari ha dato immediatamente il suo assenso.
Ha poi preso la parola Beppino Englaro, padre di Eluana , la ragazza che da 16 anni e 4 mesi si trova in coma vegetativo, definita dal padre “purosangue della libertà” , una persona dotata di una incredibile sensibilità e vivacità ( “impossibile da fermare – dice il padre – perché diventava come l’acqua”) , che aveva espresso ripetutamente ai familiari il rifiuto all’accanimento terapeutico qualora lei fosse “ …invasa da tubi e mani estranee…”. Beppino Englaro conduce da anni la sua battaglia per far rispettare la volontà di sua figlia ; 16 anni fa è mancato il dialogo con i medici , Beppino Englaro vuole a tutti i costi riprendere oggi questo dialogo.
E’ stata poi la volta del dott. Cricelli, medico di famiglia di un piccolo paese vicino Firenze. Non è vero che si muore sempre in Ospedale, ha affermato, l’80% dei processi di fine vita si conclude a casa propria , poiché l’Italia è fatta di piccoli paesi, non solo di grandi città. Il medico di medicina generale è il medico della famiglia e della comunità, ragiona con la mentalità di quelli di casa, deve trattare con chiunque si presenti perché questo fa parte della vita. E’ una consolazione morire a casa, e per i parenti e amici lo è il partecipare al lutto. Il medico di medicina generale è amico , affronta e risolve problemi pratici, trascorre del tempo con la persona sofferente, deve gestire le verità e le angosce, i dubbi, il dolore. La sofferenza non è il morire, ma il sapere di dover morire. Purtroppo il medico di medicina generale è “impreparato” a questo; il 75% dei mmg rifiuta le responsabilità di fine vita e non pratica la desistenza terapeutica mentre il 92% afferma di aver bisogno di formazione sulla gestione delle cure di fine vita.
Il prof. Corrado Viafora, professore di Bioetica all’Università di Padova, ha svolto il tema : “Interventi al limite: la desistenza terapeutica in ambito neonatale”. Ha affermato che grandi sono stati i progressi della medicina nel campo della rianimazione di neonati gravemente prematuri: si è passati dal “lasciar fare alla natura” all’interventismo spinto al limite (23/24 settimane di gestazione), con il rischio di gravi danni neurologici e di disabilità residua. Viafora ha parlato di ambivalenza delle potenzialità tecnologiche, del riconoscimento del bambino come soggetto e del rapporto con la genitorialità, della necessità/difficoltà del coinvolgimento decisionale dei genitori e infine dell’incertezza prognostica. La riflessione va fatta non solo sulla sospensione delle cure ma anche sull’inizio delle cure, sul decidersi delle cure, se intervenire o meno, su come valutare l’eventuale disabilità residua. Viafora ha poi trattato le diverse problematiche legate all’approccio interventista, a quello statistico ( che significa porre dei limiti) e all’approccio individualizzato (clinico) sul neonato che presenta segni di vitalità autonoma. E’ necessario prendere la decisione più rispettosa per la dignità umana di questo bambino facendosi guidare dal criterio del bene prezioso della vita (diritto alla vita) , istanza etica che si impone con forza all’equipe medica e ai genitori. Alla 25° settimana di gestazione sussistono gravi rischi di complicanze neurologiche in caso di sopravvivenza, si impone pertanto la gestione responsabile dei mezzi che la tecnologia mette a disposizione ( non tutto ciò che è possibile fare è lecito fare) . C’è il rischio dell’uso della tecnologia sempre più automatico; ma non può essere la tecnica – ha concluso il prof Viafora - a dettare le leggi.
L’ultimo intervento è stato quello del senatore Ignazio Marino, chirurgo di fama mondiale, specialista nel trapianto di fegato, fautore di un progetto di legge per il riconoscimento del testamento biologico. Marino ha ricordato come negli USA il testamento biologico è legge da circa 20 anni ; è cosa necessaria poiché i miglioramenti tecnologici in medicina impongono nuove riflessioni sulla vita e sulla morte. Ha citato il suo grande maestro, Thomas Starzl, che sosteneva che l’esistenza di una tecnologia non costituisce mai l’obbligo al suo utilizzo. Partendo dal caso di Karen Quinlan (New Jersey), in coma da dieci anni, la Corte Suprema USA ha sentenziato : le cure, se inutili, possono essere sospese. Parlando di testamento biologico ha parlato della nomina di un fiduciario che ci rappresenta quando noi non lo possiamo più fare. Parla di una decisione ( di desistere dalle cure di fine vita) condivisa con i familiari, con i parenti o gli amici, con i religiosi, con quanti sono in relazione importante, significativa con quel malato. L’art. 32 della nostra costituzione parla del consenso alla terapia; lo stesso consenso – sostiene il prof Marino - lo devo esprimere ( o lo esprimono gli altri) per la mia fine vita. Perché deve decidere un altro che non mi conosce, per me? Il testamento biologico deve essere tutt’altro che una “burocratizzazione di fine vita”. La Chiesa Cattolica, il codice deontologico norma la vita/morte; perché uno stato laico, si chiede Marino, non lo può fare? E’ il momento di scrivere questa legge.
Alle relazioni è seguito poi un breve dibattito; il dottor Mazzon ha ribadito la necessità di stimolare la ricerca scientifica sui momenti di fine vita e , riferendosi al testamento biologico , ha sostenuto che il dibattito oggi è troppo ideologizzato,duro. La legge sul testamento biologico deve essere leggera, non burocratica ( “guai se si deve passare attraverso il notaio”) ed ha sostenuto con forza la non incriminabilità dei medici che soddisfano i desideri dei pazienti giunti alla fine vita. Il prof. Viafora ha affermato la necessità che in questo confronto non tattico, ma onesto, si debba dare ascolto anche alle istanze dei comitati etici, decidendo su basi ben argomentate . Ha infine affermato la necessità di aumentare la formazione bioetica nel corso degli studi medici. L’attuale “militarizzazione “ del dibattito sulle questioni di fine vita – ha sostenuto Orsi – verrebbe sicuramente modificato dall’avvicinarsi alla realtà dei malati in ospedale, “bisogna andare in loco” , avvicinarsi alla realtà , basta teoria.
E’ intervenuto infine il Vice Presidente dell’Omceo di Venezia, Salvatore Ramuscello, che si è dapprima congratulato col collega Cristiano Samueli, vero artefice di questo primo Simposio nazionale, poi ha fatto questa riflessione . “ …di fronte agli eventi di fine vita come medico ho chiaro quale deve essere il mio comportamento e lo metto in atto secondo scienza e coscienza. Anche dal punto di vista deontologico so che cosa devo fare e mi sento a posto con la coscienza. Ma nelle decisioni di fine vita c’è un problema tuttora irrisolto, ed è quello della Magistratura. E’ necessario, prima di qualunque altra cosa, depenalizzare l’atto medico relativo alle decisioni di fine vita”.
Rispondendo a questa precisa affermazione del dottor Ramuscello, il senatore Ignazio Marino ha testualmente detto “ Al Senato c’è la volontà di arrivare ad affrontare il problema della depenalizzazione dell’atto medico e mi impegno a trovare un accordo con la maggioranza per la depenalizzazione dell’atto medico e a farlo entro questa legislatura. La soluzione alle problematiche di fine vita va trovata all’interno del luogo di cura, non nel tribunale”.
Con la consegna ai relatori di un omaggio ( opera in vetro dei maestri di Murano ) il Simposio si è sciolto attorno alle ore 14.00 .
Franco Fabbro
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