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Home › Notizie medici › III Simposio Nazionale sulle probelmatiche di fine vita : commenti. ›III Simposio Nazionale sulle probelmatiche di fine vita : commenti.
Al Centro Congressi Kursaal di Sottomarina di Chioggia si è tenuto il giorno 2 ottobre 2010 alle ore 9.30 il Terzo Simposio Nazionale sulle decisioni di fine vita. Con il Primo Simposio Nazionale sulle decisioni di fine vita tenutosi a Mestre nel maggio 2008 si era iniziato a dare una risposta alla domanda: quale il ruolo della desistenza terapeutica?
Nel maggio 2009 il Secondo Simposio Nazionale sulle decisioni di fine vita organizzato a Mestre ha evidenziato come ci sia un legame profondo tra l’etica dell’accompagnamento e la desistenza terapeutica. Organizzato dall’Associazione culturale Il Sestante e patrocinato dall’Associazione Italiana per le Decisioni di Fine vita, quest’anno si è voluto affrontare la questione del fine vita dal punto di vista delle testimonianze.
È stato possibile ascoltare le tragiche testimonianze personali che fornite da Mina Welby (moglie di Piergiorgio Welby) e da Beppino Englaro (papà di Eluana Englaro) insieme a quelle di professionisti che vivono tutti i giorni le difficoltà etiche e deontologiche che pongono le problematiche di fine vita.
Per la prima volta in Italia è stato possibile ascoltare contemporaneamente su queste tematiche medici di ambiti differenti: il Sen. Prof. Ignazio Marino (Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale), la Dott.ssa Mariagrazia Piscaglia (Direttore dell’Unità Operativa Neuromotoria IRCCS San Raffaele di Roma Sede di Velletri. Componente del Consiglio direttivo della Società italiana di Neuroscienze Ospedaliere), il dott. Guido Bertolini (responsabile del Laboratorio di Epidemiologia dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche "Mario Negri" di Milano), il dott. Mario Riccio (componente della Consulta di Bioetica di Milano e della Commissione di Bioetica della SIAARTI) mentre io sono un medico di medicina generale.
Questo momento di riflessione è stato importante perché le vicende Welby ed Englaro sono l’evidenza più lampante che i principi dell’autodeterminazione della persona devono trovare una risposta nell’atto medico che sia eticamente e deontologicamente fondata.
Questi casi infatti se da una parte hanno prepotentemente evidenziato come ci siano delle carenze a livello legislativo dall’altra hanno ancora di più reso evidente come ci sia una difficoltà di approccio alle problematiche di fine vita da parte della medicina. Ricordo che l’unica anche se autorevole presa di posizione su queste tematiche è stata del Consiglio Nazionale della FNOMCeO con il documento sulle D.A.T. redatto a Terni il 13 giugno 2009.
L’importanza di tale documento risiede nel fatto che richiama il codice deontologico come fondamento dell’agire del medico nei confronti di un paziente in stato terminale quando dice che “il principio dell’obbligo di garanzia (beneficialità-non maleficità) viene infranto quando il medico, intenzionalmente e con mezzi idonei, opera per la fine della vita anche se ciò è richiesto dal paziente (eutanasia) o insiste in trattamenti futili e sproporzionati dai quali cioè fondatamente non ci si può attendere un miglioramento della malattia o della qualità di vita (accanimento diagnostico terapeutico).
Il Medico lede altresì il principio di giustizia se trascura di offrire un progetto di cura efficace e proporzionato al miglioramento della malattia o della qualità di vita al paziente terminale o incapace o comunque fragile (abbandono terapeutico) e viola il principio di autonomia del cittadino se insiste nell’intraprendere o nel perseverare in trattamenti rifiutati dal paziente capace ed informato”.
Partendo da queste considerazioni, si è posto il problema di definire i limiti che il medico ha o non ha nei confronti del paziente terminale per quanto riguarda l’approccio terapeutico. Compreso quindi che i concetti di eutanasia ed accanimento terapeutico sono contrari alla deontologia medica ed alla legge, si è giunti al concetto di desistenza terapeutica, termine che è stato mutuato dall’Anestesia-Rianimazione, ambito della medicina in cui per primo si è sentito il bisogno di affrontare queste problematiche in maniera globale. In questo settore infatti è molto più pressante e drammatico il problema delle decisioni di fine vita nei confronti di un paziente morente.
Quando si parla di desistenza terapeutica ci si riferisce all'accompagnamento verso la morte di un paziente morente e non al suo completo abbandono perché il medico continua comunque ad assistere il morente nelle fasi terminali della vita rispettandone la dignità.
Questo Simposio ha dimostrato ulteriormente che tra il nichilismo terapeutico, l’eutanasia e l’accanimento, l’unica soluzione alle difficili domande poste dalle problematiche di fine vita le può dare soltanto la “desistenza terapeutica” che è ormai divenuta l’espressione di quell’etica dell’accompagnamento che è in sintonia con la Deontologia Medica.
Le informazioni dettagliate dell’evento sono disponibili sul sito www.desistenzaterapeutica.it.
Dott. Cristiano Samueli
Nel maggio 2009 il Secondo Simposio Nazionale sulle decisioni di fine vita organizzato a Mestre ha evidenziato come ci sia un legame profondo tra l’etica dell’accompagnamento e la desistenza terapeutica. Organizzato dall’Associazione culturale Il Sestante e patrocinato dall’Associazione Italiana per le Decisioni di Fine vita, quest’anno si è voluto affrontare la questione del fine vita dal punto di vista delle testimonianze.
È stato possibile ascoltare le tragiche testimonianze personali che fornite da Mina Welby (moglie di Piergiorgio Welby) e da Beppino Englaro (papà di Eluana Englaro) insieme a quelle di professionisti che vivono tutti i giorni le difficoltà etiche e deontologiche che pongono le problematiche di fine vita.
Per la prima volta in Italia è stato possibile ascoltare contemporaneamente su queste tematiche medici di ambiti differenti: il Sen. Prof. Ignazio Marino (Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale), la Dott.ssa Mariagrazia Piscaglia (Direttore dell’Unità Operativa Neuromotoria IRCCS San Raffaele di Roma Sede di Velletri. Componente del Consiglio direttivo della Società italiana di Neuroscienze Ospedaliere), il dott. Guido Bertolini (responsabile del Laboratorio di Epidemiologia dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche "Mario Negri" di Milano), il dott. Mario Riccio (componente della Consulta di Bioetica di Milano e della Commissione di Bioetica della SIAARTI) mentre io sono un medico di medicina generale.
Questo momento di riflessione è stato importante perché le vicende Welby ed Englaro sono l’evidenza più lampante che i principi dell’autodeterminazione della persona devono trovare una risposta nell’atto medico che sia eticamente e deontologicamente fondata.
Questi casi infatti se da una parte hanno prepotentemente evidenziato come ci siano delle carenze a livello legislativo dall’altra hanno ancora di più reso evidente come ci sia una difficoltà di approccio alle problematiche di fine vita da parte della medicina. Ricordo che l’unica anche se autorevole presa di posizione su queste tematiche è stata del Consiglio Nazionale della FNOMCeO con il documento sulle D.A.T. redatto a Terni il 13 giugno 2009.
L’importanza di tale documento risiede nel fatto che richiama il codice deontologico come fondamento dell’agire del medico nei confronti di un paziente in stato terminale quando dice che “il principio dell’obbligo di garanzia (beneficialità-non maleficità) viene infranto quando il medico, intenzionalmente e con mezzi idonei, opera per la fine della vita anche se ciò è richiesto dal paziente (eutanasia) o insiste in trattamenti futili e sproporzionati dai quali cioè fondatamente non ci si può attendere un miglioramento della malattia o della qualità di vita (accanimento diagnostico terapeutico).
Il Medico lede altresì il principio di giustizia se trascura di offrire un progetto di cura efficace e proporzionato al miglioramento della malattia o della qualità di vita al paziente terminale o incapace o comunque fragile (abbandono terapeutico) e viola il principio di autonomia del cittadino se insiste nell’intraprendere o nel perseverare in trattamenti rifiutati dal paziente capace ed informato”.
Partendo da queste considerazioni, si è posto il problema di definire i limiti che il medico ha o non ha nei confronti del paziente terminale per quanto riguarda l’approccio terapeutico. Compreso quindi che i concetti di eutanasia ed accanimento terapeutico sono contrari alla deontologia medica ed alla legge, si è giunti al concetto di desistenza terapeutica, termine che è stato mutuato dall’Anestesia-Rianimazione, ambito della medicina in cui per primo si è sentito il bisogno di affrontare queste problematiche in maniera globale. In questo settore infatti è molto più pressante e drammatico il problema delle decisioni di fine vita nei confronti di un paziente morente.
Quando si parla di desistenza terapeutica ci si riferisce all'accompagnamento verso la morte di un paziente morente e non al suo completo abbandono perché il medico continua comunque ad assistere il morente nelle fasi terminali della vita rispettandone la dignità.
Questo Simposio ha dimostrato ulteriormente che tra il nichilismo terapeutico, l’eutanasia e l’accanimento, l’unica soluzione alle difficili domande poste dalle problematiche di fine vita le può dare soltanto la “desistenza terapeutica” che è ormai divenuta l’espressione di quell’etica dell’accompagnamento che è in sintonia con la Deontologia Medica.
Le informazioni dettagliate dell’evento sono disponibili sul sito www.desistenzaterapeutica.it.
Dott. Cristiano Samueli
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