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Eutanasia, a Nordest 6 su 10 sono per il sì (da Il Gazzettino.it)
Eutanasia, a Nordest 6 su 10 sono per il sì
Martedì 28 Aprile 2009,
di Cristiano Samueli*
Di fronte alla domanda riguardante la scelta di morire, la mia prima considerazione è stata se coloro che hanno risposto fossero davvero coscienti di cosa andavano ad affermare. Questo perché la domanda suscita già una prima perplessità dato che non possono essere le persone a praticare l'eutanasia poiché altrimenti si tratterebbe di suicidio. D'altra parte con eutanasia non si può unicamente intendere il porre termine alla vita di un malato incurabile. Ecco che allora sorge il problema di definire il termine eutanasia.
Tutta la più recente riflessione bioetica identifica il concetto di eutanasia con qualsiasi azione che porta intenzionalmente e deliberatamente a morte il malato. Per eutanasia, nell'accezione più appropriata del termine, si deve quindi intendere esclusivamente la soppressione intenzionale della vita di un paziente. Il consenso che emerge dalle risposte, a mio avviso, ha tra le sue motivazioni il fatto che la maggioranza delle persone ignora totalmente l'esistenza di un approccio diverso e più fattivo rispetto all'eutanasia, ovvero quello della desistenza da cure inappropriate per eccesso.
Il termine desistenza terapeutica è stato mutuato dall'Anestesia-Rianimazione, ambito della medicina in cui per primo si è sentito il bisogno di affrontare queste problematiche in maniera globale. In questo settore infatti è molto più pressante e drammatico il problema delle decisioni di fine vita nei confronti di un paziente morente. Desistere vuol quindi dire accompagnare questo tipo di pazienti verso la fine dando loro la migliore terapia del dolore e di supporto vitale, creando un rapporto medico-paziente chiaro ed efficace che riesca anche a decodificare le loro esigenze, costruendo inoltre una relazione positiva con la famiglia. Spesso il morente è portato a pensare all'eutanasia perché vede nella morte l'unica soluzione alle sue sofferenze ed è per evitare questo che il medico che desiste deve prestare attenzione al paziente terminale perché sapendo affrontare questi momenti di grave difficoltà si aiuta il malato a recuperare il senso della sua condizione.
Dunque nessun accanimento terapeutico ma nemmeno un abbandono definitivo della persona, perché il medico continua comunque ad assistere il morente rispettandone la dignità ma senza travolgerlo con trattamenti di nessuna utilità. In strutture come gli hospice ospedalieri e domiciliari si mette in atto questo concetto di accompagnamento del malato agonizzante verso la fine della vita. Strutture, queste, che in realtà sono ancora troppo poche e che andrebbero implementate, mettendo in campo un progetto sanitario nazionale di ampio respiro e capace di rispondere a questa emergenza fino ad oggi fin troppo sottaciuta. Un dato esemplificativo su tutti: In Italia ogni anno oltre diecimila bambini contraggono una malattia che li porterà velocemente verso la fine della vita. Dati ufficiali dicono che meno del 5% di questi riesce a raggiungere un centro di cure palliative e di terapia del dolore. Gli altri spariscono nel mare degli ospedali a volte poco attrezzati per seguire loro ed i genitori, con tutte le conseguenze che ci si può facilmente immaginare. Su tutto il territorio nazionale esiste ad oggi un unico hospice pediatrico, in funzione a Padova dal settembre 2008.
La desistenza terapeutica può essere il nuovo percorso che porta ad affrontare le problematiche di fine vita e dobbiamo tutti insieme sviluppare e delimitare questo concetto. È per questo che, grazie anche alla sensibilità del presidente dell'Ordine dei Medici di Venezia, dott. Maurizio Scassola, abbiamo organizzato il Secondo Simposio Nazionale sulle Decisioni di Fine Vita dal titolo "Etica dell'accompagnamento e desistenza terapeutica" che si terrà a Mestre il 16 maggio e che vedrà presenti personalità di alto livello.
Alla luce di quanto detto, quali potrebbero essere i risultati di un sondaggio rispetto alla seguente domanda: è favorevole o contrario all'accompagnamento verso la morte del malato terminale? A voi la risposta.
Tutta la più recente riflessione bioetica identifica il concetto di eutanasia con qualsiasi azione che porta intenzionalmente e deliberatamente a morte il malato. Per eutanasia, nell'accezione più appropriata del termine, si deve quindi intendere esclusivamente la soppressione intenzionale della vita di un paziente. Il consenso che emerge dalle risposte, a mio avviso, ha tra le sue motivazioni il fatto che la maggioranza delle persone ignora totalmente l'esistenza di un approccio diverso e più fattivo rispetto all'eutanasia, ovvero quello della desistenza da cure inappropriate per eccesso.
Il termine desistenza terapeutica è stato mutuato dall'Anestesia-Rianimazione, ambito della medicina in cui per primo si è sentito il bisogno di affrontare queste problematiche in maniera globale. In questo settore infatti è molto più pressante e drammatico il problema delle decisioni di fine vita nei confronti di un paziente morente. Desistere vuol quindi dire accompagnare questo tipo di pazienti verso la fine dando loro la migliore terapia del dolore e di supporto vitale, creando un rapporto medico-paziente chiaro ed efficace che riesca anche a decodificare le loro esigenze, costruendo inoltre una relazione positiva con la famiglia. Spesso il morente è portato a pensare all'eutanasia perché vede nella morte l'unica soluzione alle sue sofferenze ed è per evitare questo che il medico che desiste deve prestare attenzione al paziente terminale perché sapendo affrontare questi momenti di grave difficoltà si aiuta il malato a recuperare il senso della sua condizione.
Dunque nessun accanimento terapeutico ma nemmeno un abbandono definitivo della persona, perché il medico continua comunque ad assistere il morente rispettandone la dignità ma senza travolgerlo con trattamenti di nessuna utilità. In strutture come gli hospice ospedalieri e domiciliari si mette in atto questo concetto di accompagnamento del malato agonizzante verso la fine della vita. Strutture, queste, che in realtà sono ancora troppo poche e che andrebbero implementate, mettendo in campo un progetto sanitario nazionale di ampio respiro e capace di rispondere a questa emergenza fino ad oggi fin troppo sottaciuta. Un dato esemplificativo su tutti: In Italia ogni anno oltre diecimila bambini contraggono una malattia che li porterà velocemente verso la fine della vita. Dati ufficiali dicono che meno del 5% di questi riesce a raggiungere un centro di cure palliative e di terapia del dolore. Gli altri spariscono nel mare degli ospedali a volte poco attrezzati per seguire loro ed i genitori, con tutte le conseguenze che ci si può facilmente immaginare. Su tutto il territorio nazionale esiste ad oggi un unico hospice pediatrico, in funzione a Padova dal settembre 2008.
La desistenza terapeutica può essere il nuovo percorso che porta ad affrontare le problematiche di fine vita e dobbiamo tutti insieme sviluppare e delimitare questo concetto. È per questo che, grazie anche alla sensibilità del presidente dell'Ordine dei Medici di Venezia, dott. Maurizio Scassola, abbiamo organizzato il Secondo Simposio Nazionale sulle Decisioni di Fine Vita dal titolo "Etica dell'accompagnamento e desistenza terapeutica" che si terrà a Mestre il 16 maggio e che vedrà presenti personalità di alto livello.
Alla luce di quanto detto, quali potrebbero essere i risultati di un sondaggio rispetto alla seguente domanda: è favorevole o contrario all'accompagnamento verso la morte del malato terminale? A voi la risposta.
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