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Home › Segreteria OMCeO Ve › Crisi della medicina e nuove relazioni interprofessionali: l'analisi di un giovane medico ›Crisi della medicina e nuove relazioni interprofessionali: l'analisi di un giovane medico
Data di inserimento: Giovedì, 11/04/19 - Segreteria OMCeO Ve
Questo articolo è stato pubblicato ieri, 10 aprile 2019, sulla rivista on line di settore Quotidiano Sanità (lo potete leggere a questo link: http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=72917) e sul portale della FNOMCeO (potete leggerlo a questo link diretto: https://portale.fnomceo.it/un-giovane-medico-di-fronte-alla-crisi-della-medicina-alle-nuove-relazioni-interprofessionali/). Marco Codato è un giovane medico di famiglia che partecipa ai mercoledì filosofici, organizzati dalla Fondazione Ars Medica per conto dell'OMCeO veneziano, per discutere la questione medica, in vista degli Stati Generali della professione indetti dalla FNOMCeO.
Gentile Direttore,
sono un giovane medico di famiglia che frequenta i mercoledì filosofici della Fondazione Ars Medica dell’OMCeO veneziano. Lo studio delle tesi proposte dal prof. Cavicchi in vista degli stati generali della professione hanno suscitato in me alcune riflessioni che vorrei condividere.
Scrive il prof. Cavicchi a pag. 12 e pag. 16 delle 100 Tesi: “Si tratta di riconoscerla come crisi paradigmatica […] e non di disconoscerla come crisi rincorrendo i singoli problemi, convinti che con la loro soluzione si risolve tutto. […] Il paradigma rispetto alla medicina, grosso modo, è il suo programma base, il suo cervello pensante, il suo modello di razionalità, quindi di scienza, fatto da pacchetti di norme, regole, principi, valori, conoscenze, e che dirige, sovraintende, attua, la pratica medica attraverso il medico che ne è semplicemente l’estensione. Il paradigma è quindi un sistema concettuale sovraordinato al medico, ma attuato attraverso il medico”.
Per evitare di non cadere nel riduzionismo della crisi propria del medico e trattare il paradigma invece nel suo significato più vasto vorrei provare a immaginare la società umana come un superorganismo. In tale accezione la comunità umana genera sistemi complessi per riprodursi e perpetuarsi.
D’altra parte tale sistema creato (come può essere quello economico, politico, sanitario, ecc) acquisisce una sorta di “intelligenza altra” che persegue un percorso che si complica all’aumentare delle variabili. Più il sistema genera diversità e complessità e più l’uomo perde coscienza di esso. Fino al punto in cui le regole di questo sistema sfuggono all’individuo il quale resta relegato a un livello inferiore di consapevolezza.
Proviamo ad immaginare gli uomini come le cellule di un corpo umano che interagiscono e comunicano come fanno di fatto le cellule e costituiscono un individuo più grande di loro senza esserne consapevoli. Così la moltitudine umana crea sistemi di livello superiore con leggi oscure all’uomo stesso.
Ad esempio, secondo questo schema, alcune formiche possono creare un ponte con i loro corpi per permettere alle altre di attraversare un lungo baratro senza che un individuo (o un gruppo di individui) coordini l’azione ma semplicemente grazie all’incessante meccanismo della spinta evoluzionistica. Ogni individuo atto a quel compito entra pertanto nella condizione esistenziale del dover fare quel compito perché in tale sistema o società ciò è il suo ruolo, non può più scegliere e non può più astenersi.
Un sistema complesso che si generi da una moltitudine di individui può produrre ruoli obbligati necessari al mantenimento del sistema stesso in modo del tutto autoreferenziale.
Ciò vale anche per il medico nel sistema della medicina. Nel mondo della sanità i singoli operatori entrano nel meccanismo dei ruoli e perdono di vista la direzione del sistema medicina. Talora si può avere l’illusione di governare in qualche modo tale progresso e impartire linee di condotta, come per esempio le società scientifiche che sembra possano gestire il modo di operare. Ma tale operato si estrinseca solo all’interno dei confini di tale sistema senza modificarlo.
Inoltre a rendere ancora più nebulosa la questione vi è il fatto che la medicina non è una scienza esatta ma coinvolge la persona nella sua interezza; come scienza umana si addentra in ambiti non esplorabili solo con l’utilizzo della ragione.
Ad esempio l’idea che oggi abbiamo della riproduzione umana nel nostro paese e nel nostro sistema referenziale non è la stessa di cento anni fa. Basti considerare a quale cambiamento di pensiero hanno portato le innovazioni avvenute nel campo della fecondazione assistita. Ma questo pensiero ha una direzione prevedibile? Come sarà fra cento anni? Potrebbe anche darsi che si tornerà ad un purismo riproduttivo o viceversa ad una distopica clonazione eugenetica…
Riguardo la malattia, come sarà considerata in futuro dalla società?
La sofferenza nella nostra società appartiene sempre più alla collettività (intesa come ospedali, sistemi assistenzialisti, case di riposo, ecc.) e sempre meno alla dimensione familiare, forse anche perché la famiglia non ha più le risorse per assistere un congiunto, ma forse anche per una questione di igiene sociale dove la malattia va curata negli spazi e nei modi indicati.
E in futuro sarà problema sociale da nascondere o una normalità accettata? Una problematica di comunità gestibile dalla collettività o un problema del singolo e dell’ambito familiare?
Gli avvenimenti del passato ci hanno insegnato che la storia non ha una direzione (tantomeno segue un progresso positivistico) e questo ragionamento è applicabile ad ogni campo che coinvolge la medicina (ad esempio la malattia, la sofferenza, l’idea di morte, di cura, ecc.). Quindi la direzione della storia della medicina esula dal campo di azione del medico. Ma una riflessione più ampia su questi temi penso sia necessaria per aumentare il livello di consapevolezza.
Un altro grosso problema sollevato dal Prof. Cavicchi nelle sue tesi che va ad innestarsi perfettamente con la tematica del sistema della medicina autoreferenziale è la questione della metodologia e il suo difficile rapporto con il mondo non razionale della relazione con il malato. Riportando la sua tesi 21: “Se la metodologia, privilegiando l’evidenza, resta indifferente ai valori della relazione allora vuol dire che l’evidenza resta indifferente alla complessità e alla singolarità del malato e la metodologia è imposta come un a priori dogmatico. […] La metodologia resta fondamentale per garantire una conoscenza scientifica e per sbagliare il meno possibile. Tuttavia alla luce delle nuove complessità è necessario ripensarne il carattere dogmatico nel senso di attenuare la rigidità del suo uso e della sua applicazione”.
L’Evidente Based Medicine EBM è il ragionamento alla base della medicina contemporanea. Garantirebbe la dimostrata scientificità dell’atto medico ma può anche diventare il limite di azione legale del professionista. Il rischio è che possa trasformarsi in una sorta di fede ad una scienza esatta e ad un modello di cura come processo razionale. A quel punto il medico diverrebbe un tecnico, la cura sarebbe data in mano alla tecnologia e il ruolo umano sarebbe relegato soltanto al supporto psicologico.
Come il linguaggio usa noi per parlarsi, il sistema medico usa noi medici per estrinsecarsi. Il medico perde sempre più la capacità di decisione perché deve agire per quello che il suo ruolo gli impone. Il medico di fronte ad una problematica di un paziente non potrà non proporre l’iter diagnostico condiviso e dimostrato da evidenze. Ciò porterà invariabilmente verso la standardizzazione della cura con il rischio di sconfinare nel riduzionismo statistico.
È sempre più difficile quindi per il clinico astenersi da un atto medico (diagnostico o terapeutico) che non ritiene utile per il singolo caso se invece è previsto da linee guida, sia per una questione medico legale sia per una sorta di dovere/abitudine sistema-relato.
Se poi durante tali accertamenti si riscontrassero alterazioni occasionali dei dati di laboratorio o di imaging (quali ad esempio gli incidentalomi), sarebbe eticamente e proceduralmente obbligato ad approfondire con altri esami, visite o organizzare followup di fatto creando etichette, diagnosi, patologia fisica ma soprattutto psichica. Questo è il sistema medico che si autoalimenta.
La fiducia nei confronti dell’EBM ovviamente è alla base del progresso della medicina così come ogni disciplina del sapere umano attinge dall’accumulo delle esperienze. In ogni ambito dello scibile umano si affastellano sempre più tasselli di esperienze che vanno a costituire enormi quantità di conoscenze che si acquisiscono, si studiano e si tramandano. Ogni pezzettino di conoscenza è stato dimostrato da altri prima di noi, fidandoci del loro operato continuiamo il percorso di scoperta.
Uso l’automobile eppure non saprei minimamente come progettare un motore ma poiché funziona mi fido del progettista. Ciò vale anche per la medicina ovviamente, purtroppo in quest’ambito la dimostrazione non è sempre evidente agli occhi di chi ne usufruisce. Creando enormi problemi di fiducia tra medico e paziente e talora anche all’interno della classe medica.
Ma è sempre giusta la cieca fiducia pur circostanziata da prove di efficacia?
Ogni medico conosce il suo fazzoletto di competenze e dovrà fidarsi della gran parte delle nozioni acquisite. Ovviamente se prescrivo un antibiotico mi fido di Fleming e via via di tutte le sperimentazioni eseguite fino ad oggi, ma chi fa da garante di tutto questo? Come posso sapere che ogni singolo atto EBM sia dimostrato per il paziente che sto trattando?
Tra colleghi bisogna fare attenzione quando si parla il solo linguaggio dell’EBM, il solo linguaggio della scienza, perché si genera più scienza autoreferenziale. Il lato umano e umanistico sempre più si appiattisce facendo perdere al medico giorno per giorno briciole di consapevolezza ma soprattutto sfaldando il rapporto con il paziente e quindi lo scopo primario: curare la persona.
Forse anche l’università di medicina, la politica, l’amministrazione devono tornare allo studio delle scienze umane o avvalersi di supporto di figure che possano considerare il paziente come una persona complessa e non solo un paziente da tranquillizzare con prestazioni, tantissime prestazioni.
Noi medici ci chiediamo cosa vorrebbero i pazienti? Si certamente, probabilmente tante volte siamo portati erroneamente a pensare che vogliano poter eseguire tutti gli esami possibili per non ammalarsi e usufruire di tutte le terapie possibili per poter vivere all’infinito.. ma è davvero così?
Forse la persona oggi vorrebbe più di ogni altra cosa, prima ancora dell’immortalità e dell’eterna giovinezza, una vera presa in carico che non può avvenire nel sistema sanitario multiframmentato delle competenze.
Partendo ancora una volta dalle tesi di Cavicchi 27 e 29: “Non vi è alcun dubbio sulla necessità di ripensare le forme storiche di cooperazione tra professioni. […] Si tratta tuttavia di ridiscutere i rapporti inter professionali a partire non da cosa conviene all’operatore ma da cosa conviene al malato e alla gestione. […] Ormai è tempo di andare oltre la logica delle mansioni, dei compiti, delle competenze ed esprimere articolate e distinte prese in carico […] È tempo che tanto i medici che le altre professioni in base ai loro ruoli collaborino per riformare le attuali organizzazioni tayloristiche del lavoro, che in quanto tali frantumano inutilmente l’unità del malato”.
La persona oggi è seguita da una moltitudine di figure differenti (MMG, specialisti, fisioterapisti, infermieri, ecc.) che instaurano un proprio programma di cura, forse avrebbe invece bisogno di essere seguita da un’unica équipe che condivida il piano terapeutico, che condivida il percorso, che conosca la persona e che dia informazioni mai discordanti.
Per esigenze per lo più amministrative ed economiche il sistema sanitario porta a ridurre la presa in carico della persona e a spezzettare la cura in prestazioni creando confusione e senso di abbandono. Ma non c’è tempo per la relazione col paziente e ancora meno per la relazione tra colleghi che permetterebbe una gestione condivisa, una chiarezza di intenti agli occhi del paziente, una presa in carico collegiale da parte di competenze diverse. Si tratta di un sistema utopico forse, ma potrebbe superare tanti problemi e forse anche far risparmiare gli amministratori.
La persona sarebbe gestita da un insieme di figure che stilano un iter diagnostico e un programma di cure condiviso, si potrebbero risparmiare esami ridondanti, inutili, si potrebbero accorciare liste d’attesa, si potrebbero gestire imprevisti in tempi rapidi, si potrebbero ridurre gli accessi al pronto soccorso, ma soprattutto si creerebbe un miglior rapporto di fiducia medico, paziente e tra colleghi.
Ridurre le barriere tra ospedale e territorio, tra servizi differenti, imparare dal collega più anziano e dalle altre competenze. Ciò tutelerebbe di più la salute della persona e l’operato dei medici anche da un punto di vista medico legale. Non più tanti rapporti singoli medico/paziente che vanno a confliggere l’uno con gli altri, ma un rapporto équipe medica/paziente o ancora meglio équipe ampliata con altre figure professionali: infermieri, psicologi, assistenti sociali e magari anche filosofi.
Un’équipe multidisciplinare forse avrebbe più tempo per la relazione, potrebbe usare un linguaggio più vicino alla persona e sarebbe in grado di aiutare il malato a conoscere la sua malattia per creare quell’agognata alleanza terapeutica ora sempre più lontana.
Marco Codato, Medico di famiglia e partecipante ai mercoledì filosofici Fondazione Ars Medica OMCeO Venezia
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