Alleanza terapeutica: mettere la relazione al centro

Prima ancora dell’uomo, mettere la relazione al centro dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente. È questo il consiglio che la psicologa, psicoterapeuta e psico-oncologa Liuva Capezzani ha dato ai medici che hanno partecipato, lo scorso 21 febbraio nella sede mestrina dell’Ordine, alla presentazione del suo libro La relazione di cura medico-paziente. Cosa c’è ancora da sapere (Linea Edizioni).
L’evento, moderato dalla giornalista Nicoletta Benatelli, è stato organizzato dalla Cooperativa Sociale Gea e dalla sezione veneziana dell’Associazione Italiana Donne Medico (AIDM), presieduta da Viviana Zanoboni e rappresentata nell’occasione da Emanuela Blundetto, con il patrocino dell’OMCeO veneziano.
«L’argomento di questo libro – ha sottolineato la dottoressa Blundetto introducendo l’incontro – è importante per la nostra vita professionale, ma anche per la vita dei cittadini». «Questi sono temi – ha detto il vicepresidente dell’Ordine Maurizio Scassola facendo gli onori di casa – su cui dobbiamo ragionare anche per ri-orientare la professione. La persona al centro del sistema socio-sanitario senza l’équipe, senza il suo medico, senza i professionisti della salute, è una persona sola. Deve essere circondata da attenzione, affetto, professionalità e da un’organizzazione protettiva. La rivendicazione dei medici di avere sicurezza nel lavoro, protezione, serenità, soddisfazione professionale va di pari passo con i risultati nella cura delle persone. Parliamo di relazione con la persona malata, ma anche con chi le sta intorno e nelle équipes. Grazie per questa opportunità all’autrice e alle Donne Medico, sempre in prima linea ed effervescenti… Non a caso “donne medico”, perché il mondo medico femminilizzato sta dando tanti valori aggiunti».

Liuva Capezzani ha raccontato come il suo libro abbia avuto radici lontane, risalenti al periodo del suo studio universitario, quando, appena 25enne, a causa della malattia terminale del padre, si ritrova all’improvviso “dall’altra parte”, stretta in una relazione convulsa e complicata tra i medici, che vogliono dimetterlo, e i propri familiari, la madre soprattutto, che dice no. «Mi è stato chiesto – ha spiegato – di scegliere da che parte stare. Ma perché dovevo farlo? Io volevo solo accompagnare mio padre in quel momento così difficile».
Nasce lì, e si sviluppa poi in anni di lavoro intenso culminati in questo libro, il bisogno di mettere la relazione al centro di ogni cura e di offrire, poi, agli altri il proprio contributo e la propria esperienza. «Quando parliamo di relazione di cura – ha sottolineato la psico-oncologa – parliamo di responsabilità del medico e di fiducia del paziente. Abbiamo a che fare, sempre, in qualche modo, con la storia di attaccamento e di accudimento di una persona: ognuno di noi dalla nascita è dotato di sistemi motivazionali, predisposti per la nostra sopravvivenza. Tra questi l’attaccamento, appunto, legato al tipo di accudimento che un figlio ha ricevuto dal proprio genitore. Questi stili di attaccamento si costituiscono sulla base di schemi comportamentali ripetuti nel tempo: ciascuno di noi li applica nelle sue relazioni».
Il suo consiglio ai professionisti sanitari, dunque, è quello di conoscere questi stili per poter meglio relazionarsi con i pazienti: la relazione è tutto ciò che accade mentre si è impegnati a fare altro. «Mentre prescriviamo una ricetta – ha aggiunto – o un paziente racconta i suoi sintomi, accade anche qualcos’altro: si evita uno sguardo, si prendono appunti invece di guardare negli occhi, accade che il paziente si interrompa all’improvviso mentre parla, perché vede o sente che non c’è sintonia, perché spunta l’imbarazzo o la soggezione nel fare domande. Tutte cose che nascono dal suo vissuto e dalla sua esperienza precedente con le figure autorevoli».
Il medico, insomma, «con un po’ di attenzione pre-attivata», può accorgersi di questi segnali e riuscire ad interpretarli: li può cogliere, ad esempio, dal linguaggio del corpo, dai meccanismi di difesa, dal contatto oculare, che informa sulle emozioni, dall’ansia. «Dobbiamo capire – ha spiegato – se chi ci sta davanti ha risposte di attacco, di difesa, di fuga o di paralisi. E poi dobbiamo sbloccare queste difese. Su un corpo fermo e rigido, il medico può intervenire avvicinandosi per ridurre le distanze o chiedendo esplicitamente al paziente se può fare qualcosa per aiutarlo a rilassarsi. Sono riconoscimenti che hanno il valore di atti terapeutici». Da considerare, poi, anche il non detto, tutto ciò che si comunica a parole: le attese, le aspettative dell’altra persona, il vissuto di malattia e di cura, sia del medico sia del paziente.
«I pazienti – ha detto ancora la dottoressa Capezzani – fanno autodiagnosi e spesso sfidano i medici: lo fanno perché vogliono sentirsi parti attive nella relazione, vogliono sentire di avere potere sul proprio corpo. Chi sta male perde la percezione, fino a quel momento data per scontata, di avere il controllo sul proprio corpo. Il medico questo non lo sa, perché non gli viene detto. Da un lato il paziente dovrebbe approfondire e studiare, dall’altro il medico deve sapere che c’è un implicito, un vissuto legato al corpo, alle cure che ha ricevuto, al rapporto che ha avuto prima con l’autorità. Non si chiede al medico di diventare psicologo, ma solo di vedere la persona, appunto, come una persona, al di là dei ruoli. Se la relazione viene gestita con questa attenzione, la relazione diventa un atto medico, un atto di cura perché il paziente diventa complice, collaborativo».
Riconoscendo i tanti problemi che affliggono la professione – la carenza di personale, la burocrazia, la mancanza di turn over – l’autrice ha sottolineato come gli stessi medici, usurati, abbiano ormai perso la fiducia in loro stessi, la loro curiosità, il senso del loro valore, la loro vocazione. «I medici – li ha spronati allora – devono riappropriarsi del senso di autorevolezza e di valore personale, senza che sia l’istituzione a riconoscerla loro».
Questi, dunque, i consigli per una relazione efficace: avere la capacità di accogliere il non detto, di riconoscerlo, di farlo emergere, di ringraziarsi, di instaurare uno scambio e un dialogo nel rispetto dei limiti e del tempo di entrambi. «Per me – ha concluso Liuva Capezzani – la relazione è qualcosa che va al di là della forma, della cortesia, della cordialità. Diventa curiosità e rispetto. La relazione è qualcosa che si può riconoscere al di là dell’evidenza».

Ospiti della serata anche l’epistemologo ed esperto in scienze sociali Alessandro Ceci – che ha sottolineato la necessità di riorganizzare non solo la relazione tra il medico e il paziente, ma anche, proprio a partire da essa e agendo su porzioni limitate di territorio, le strutture dello Stato che garantiscono l’assistenza e la sopravvivenza – e, via telefono, lo psichiatra e criminologo Alessandro Meluzzi, che ha spiegato come «l’uso delle parole sia decisivo nel contesto terapeutico. Il paziente vuole sapere la prognosi: quanta vita gli resta, come la vivrà… Ma mentre la diagnosi è estremamente tecnica, la diagnosi non lo è, ci si può affidare solo alla statistica. Umanizzare la medicina non significa solo avere un medico gentile, significa saper avvicinare le persone, saper dialogare con loro, saperle accompagnare».

Tra i tanti temi emersi durante la discussione finale – le alte aspettative dei pazienti, l’importanza del primo approccio con loro, l’organizzazione che non funziona, la necessità di attivare reti sul territorio – ad assillare di più i camici bianchi, tutti, medici di famiglia e ospedalieri, è la mancanza di tempo. «Nel tuo racconto – ha sottolineato Emanuela Blundetto – mi sono rivista in tante situazioni vissute con i miei pazienti ogni giorno. Pazienti che vogliono non solo la mia scienza, ma anche quella che io chiamo la mia coscienza. Abbiamo chiaro ormai che il tempo di relazione è tempo di cura, ma a mancare è proprio questo: il tempo e le condizioni in cui ci fanno lavorare».
Alla fine, comunque, tutti concordi nell’affermare che la sopravvivenza della categoria medica è legata proprio alla relazione di cura. «La vera modernità – ha chiosato il vicepresidente Scassola – è una professione ancorata all’osservazione, all’ascolto, al fare le giuste domande. Al di là di esami e risonanze, fatte queste tre cose abbiamo fatto, ancora oggi, l’80% della diagnosi. Se noi “usiamo” la relazione con le persone come strumento di conoscenza di noi stessi, se siamo consapevoli che questa relazione è il nostro sviluppo individuale come uomini, come donne e come professionisti, noi abbiamo in mano il potere vero. Quello di evolverci, di andare al di là della consuetudine e della prassi».

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Provincia di Venezia

Segreteria OMCeO Ve
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