Demenza: serve una presa in carico globale e condivisa

Dopo la clinica, la diagnosi, la terapia, la cura del malato, il focus sull’assistenza socio-sanitaria: è stato questo il tema del secondo convegno dedicato alla demenza – il primo si era svolto lo scorso 5 ottobre (qui i materiali) – organizzato all’Ospedale di Noale dall’OMCeO veneziano sabato 23 novembre, con il patrocinio della FNOMCeO, dell’Ulss 3 Serenissima, degli Ordini degli Assistenti Sociali e degli Psicologi del Veneto e del Comune di Noale, la supervisione scientifica del segretario dell’Ordine e medico di famiglia a Martellago Luca Barbacane, della neurologa Maela Masato e di Vania Noventa, direttrice dell’Unità Complessa Cure Primarie del Distretto 3 dell’azienda sanitaria veneziana.
Il convegno si è aperto con il saluto arrivato in diretta telefonica dal presidente e vice nazionale Giovanni Leoni, in viaggio da Matera, dove aveva partecipato nei giorni precedenti agli Stati Generali dei Giovani Medici. «Abbiamo dedicato – ha detto – due giornate a questo tema per evidenziarne la complessità».
«La patologia di cui parliamo oggi – ha aggiunto Erika Sampognaro, direttrice del Distretto 2 Ulss 3, che ha fatto le veci del direttore generale Giuseppe Dal Ben – si sta delineando negli ultimi anni con molta più forza. Creare un legame tra le nostre diverse attività quotidiane, creare situazioni di rete per supportare l’utente all’interno di un percorso, che è devastante, è una cosa importantissima. Mi spendo da anni proprio per creare questi legami tra ospedale, territorio e ambiente sociale».

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Dopo una veloce sintesi di quanto emerso dal convegno del 5 ottobre – in cui si erano confrontati medici di famiglia, neurologi, geriatri, specialisti di medicina nucleare e psicologi – la dottoressa Masato ha illustrato la nuova giornata di studi: una volta fatta diagnosi di demenza a un paziente, che cosa gli succede? Come interagiscono ospedale, famiglia e territorio? Che indicazioni bisogna dare alla famiglia? Quali aiuti si possono fornire per una patologia invalidante che coinvolge non solo l’ambito familiare, ma l’intera società?
«Questa patologia – ha aggiunto la dottoressa Noventa – tocca ognuno di noi, non solo come medici, ma anche sotto il profilo personale: vuoi per i genitori, vuoi per amici… Quando la diagnosi è stata fatta cosa si fa? Non sempre si conoscono le vie o le realtà che possono aiutare le famiglie».

La prima sessione, moderata da Luigi Bartolomei, direttore di Neurologia del distretto Mirano-Dolo, e da Romana Bonsuan, medico di famiglia a Venezia, si è aperta con l’analisi di un nuovo approccio alla patologia che arriva dal PDTA regionale e dalla mappa web correlata, nuovi strumenti di supporto ai professionisti sia degli ospedali sia del territorio.
«La malattia – ha sottolineato la geriatra Cristina Basso, del Servizio Epidemiologico regionale e Registri Azienda Zero – va affrontata in modo strutturato, lavorando non di emergenza ma per prevenzione. Per mettere a punto il PDTA siamo partiti da dati e analisi: il piano mette la persona malata al centro, facendo in modo che diventi parte proattiva nel percorso della propria patologia. Gli altri pilastri del documento sono la valorizzazione del sospetto diagnostico e la presa in carico integrata e continuativa del paziente».
La prevenzione e l’intercettazione tempestiva della malattia sono, dunque fondamentali, per l’approccio alla demenza, pur non dovendo dimenticare il sostegno ai familiari del paziente che spesso non capiscono la sofferenza del proprio congiunto. «Il paziente – ha aggiunto la geriatra – deve rivolgersi a noi perché ha un problema cognitivo e noi dobbiamo essere in grado di coglierlo. È importante anche comunicare la diagnosi perché la persona vuole sapere cos’ha. Non parlate solo con i parenti».
Il nuovo PDTA regionale è in grado di gestire tutto il percorso del paziente con demenza: la prevenzione, la diagnosi, l’accessibilità ai servizi, la qualità di vita, con servizi integrati di cure e con l’obiettivo di mantenere la persona più indipendente possibile all’interno della propria realtà quotidiana, per arrivare anche al fine vita.
Dopo aver illustrato i fattori chiave che favoriscono l’applicazione del nuovo piano, la dottoressa Basso si è anche soffermata sulle lamentele che più spesso arrivano dai pazienti: i sintomi che vengono minimizzati proprio dai medici, le cure che sono frammentate, i medici di famiglia che non sanno bene cosa fare. In loro supporto c’è oggi anche la mappa delle demenze (https://demenze.regione.veneto.it/), costruita con la tecnica del design thinking, partendo cioè dall’esperienza diretta per dare risultati a bisogni concreti, di facile accesso e fruibile anche da smartphone e tablet. «Questa mappa – ha concluso la geriatra – crea interazione tra paziente, caregiver, team socio-sanitario, società scientifiche e associazioni, promuove un sistema sempre aggiornato, è un approccio innovativo che aiuta nel cambiamento di rotta, un punto di incontro che rafforza la rete».

La parola è poi passata all’assistente sociale del Comune di Vigonovo Alessandra Zapparoli che ha analizzato la presa in carico territoriale così come viene declinata all’interno del PDTA. «Non dobbiamo più curare – ha spiegato – il sintomo o il singolo disagio: bisogna uscire dall’ottica della prestazione per dare spazio alla complessità. Dal concetto di disagio si passa a quello di vulnerabilità: quindi la presa in carico non può più avvenire singolarmente, ma serve un processo globale».
Valutare in modo complesso significa, allora, non poter agire da soli. «Servono – ha aggiunto – un’integrazione multidisciplinare e interdisciplinare» per una presa in carico continuativa e inclusiva, che deve dare risposta a bisogni complessi. Sono necessari unitarietà di intervento, progetti personalizzati e valutazione multiprofessionale del bisogno. È necessario, allora, che tutte le figure coinvolte nel percorso:

  • cooperino tra loro;
  • siano flessibili ai bisogni di tutti, compresi quelli degli operatori;
  • sviluppino una responsabilità condivisa;
  • si confrontino per creare valore aggiunto, conoscendo ciò che fanno gli altri;
  • mettano in campo un riconoscimento reciproco di tutte le professionalità;
  • scavalchino i loro “a priori” per aprirsi all’altro.

«L’obiettivo – ha ricordato la dottoressa Zapparoli – non è solo curare, ma includere. Il ruolo dell’assistente sociale è quello del facilitatore, una specie di cerniera tra i diversi ambiti di cura, le risorse esistenti, il territorio, i medici di medicina generale e i servizi specialistici».

Dopo l’intervento di una caregiver seduta tra il pubblico che ha sottolineato le difficoltà e la solitudine che spesso incontrano i familiari dei pazienti, l’attenzione si è focalizzata – con la relazione di due giovani medici di medicina generale a Noale e a Scorzè Enrico Peterle e Marta Donà – sulle competenze, o meglio sulle incompetenze, che i medici di famiglia hanno sul fronte socio-sanitario in materia di demenza.
«Io sono abbastanza preoccupato – ha detto il dottor Peterle – di non essere all’altezza delle aspettative che hanno i pazienti con decadimento cognitivo e non, perché quello che ci si aspetta è un aumento esponenziale dei bisogno di salute e la mia capacità di rispondere a questi bisogni probabilmente non sarà altrettanto esponenziale, ma al massimo lineare. Questo creerà una divergenza che mi dà apprensione, a cui cerchiamo di rispondere con l’organizzazione e con un approccio sistemico».
Tra i limiti del medico di famiglia indicati, l’incapacità a volte di cogliere il decadimento cognitivo nonostante si segua il paziente a lungo per altre patologie, i tanti diversi tipi di test di valutazione che, forse, andrebbero uniformati, il puntare più a essere risolutivi, in particolare con pazienti affetti da più patologie, la fatica a essere analitici all’interno della complessità, soprattutto quando si vedono 60 pazienti in un pomeriggio.
Tanti, come ha spiegato la dottoressa Donà, i compiti del medico di medicina generale nel percorso assistenziale del paziente con demenza:

  • porre il sospetto diagnostico;
  • individuare dove il paziente può essere assistito;
  • individuare e attivare il percorso amministrativo adeguato;
  • inoltrare la richiesta per i servizi domiciliari;
  • stilare i certificati per l’invalidità o la Legge 104;
  • attivare, eventualmente le cure palliative;
  • procedere con le visite periodiche del paziente in ambulatorio o a domicilio rilevando parametri vitali, deficit neurosensoriali o problematiche sanitarie di vario tipo;
  • prestare attenzione al caregiver e rilevare, in caso, segni di esaurimento;
  • monitorare le comorbilità;
  • esporre la possibilità di redigere le DAT, nominare un fiduciario o un amministrazione di sostegno;
  • tenere i contatti con tutte le altre figure professionali coinvolte.

«Questo in teoria – ha aggiunto – in pratica abbiamo delle difficoltà» e le elenca in modo chiaro:

  • i tempi di erogazione dei servizi a domicilio troppo lunghi rispetto alle necessità reali dei pazienti e dei familiari;
  • l’accesso alle strutture residenziali non sempre facile, vista la scarsità di posti letto disponibili;
  • i rapporti con i caregiver o i familiari difficili perché sono persone sfinite dalla situazione;
  • il rilevare spesso una necessità importante di supporto psicologico alla famiglia a cui non si riesce a dare risposta, se non indirizzando a professionisti privati;
  • l’insufficiente formazione sui percorsi amministrativi da attivare, sul giusto orientamento del paziente, sui servizi siano attivabili direttamente dal medico di famiglia.

«È per questo che siamo preoccupati – ha concluso la dottoressa Donà – perché il carico assistenziale in futuro aumenterà e noi non siamo sufficientemente preparati. I bisogni della popolazione, dei pazienti, che sono per lo più assistenziali, spesso non trovano risposta da parte del sistema».

La prima sessione del convegno si è conclusa con le relazioni della geriatra Francesca Tiozzo, dell’unità complessa Cure Primarie del Distretto 3 dell’Ulss 3 Serenissima, e del medico di famiglia di Fossò Federico Franzoso, che hanno tracciato il quadro sulla collaborazione necessaria tra i MMG e gli specialisti territoriali.
Il dottor Franzoso ha sottolineato in particolare come il carico di lavoro legato ai pazienti con demenze, e magari anche altre patologie, sia per il medico di medicina generale importante con 24 accessi all’anno all’ambulatorio, grosso modo due al mese, e ha raccontato poi il caso clinico vissuto in prima persona di un paziente complesso, gestito per lo più a domicilio, grazie allo specialista del territorio, in un fitto scambio di relazione.
La dottoressa Tiozzo, invece, ha illustrato il ruolo del geriatra territoriale «che – ha specificato sottolineando come le richieste di visita a domicilio siano in continuo aumento – non è un’alternativa al medico di famiglia quando il paziente supera i 75 anni, non è l’unico specialista che visita a domicilio e non spiana la strada all’accesso a servizi particolari. Il geriatra territoriale non lavora mai da solo: lavora con il MMG per la presa in carico e il punto di forza è discutere insieme il caso».

La seconda sessione di studi – moderata da Gabriele Angiolelli, direttore del Distretto 3 dell’Ulss 3 Serenissima e dalla già citata Erika Sanpognaro – è stata, invece, dedicata agli aspetti medico-legali che riguardano il paziente affetto da demenza e la figura dell’amministratore di sostegno.
Anche il medico legale dell’Ulss 3 Cristina Mazzarolo, componente tra l’altro della Commissione Pari Opportunità dell’Ordine, ha voluto sottolineare come sia necessaria una presa in carico globale della persona. «I professionisti sanitari chiamati in causa – ha spiegato – siamo tutti noi, ognuno con la propria competenza, ognuno con l’obbligo giuridico della presa in carico del paziente con demenza». Ha poi aggiunto come ci sia l’obbligo anche di segnalare situazioni di abbandono morale e materiale di persone con gravi patologie, «persone anziane – ha aggiunto – o affette da demenza, di cui, non si sa perché, non si parla mai nell’ambito della violenza domestica».
I bisogni assistenziali a cui bisogna far fronte trovano risposta, ad esempio, nella richiesta di invalidità civile, che va fatta partire il prima possibile, soprattutto se ci sono altre patologie che potrebbero aggravare la condizione del malato. Poi altri consigli: «Non siate prolissi – ha spiegato la dottoressa Mazzarolo – individuate bene la patologia principale, chiedete già in convocazione un provvisorio delle legge 104, fate partecipare alle scelte i familiari e fate attivare subito sia il parcheggio disabili, sia il sostegno previdenziale».
Nella parte finale della sua relazione, il medico legale si è soffermato anche su quelli che ha definito gli aspetti di tutela ludico-ricreazionale e sociale, cioè il porto d’armi, il paziente potrebbe essere un appassionato cacciatore, e la patente di guida. «Bisogna certo favorire – ha detto – l’inclusione del soggetto. In alcuni casi togliere porto d’armi o patente a qualcuno, equivale a farlo morire… Ma noi dobbiamo anche tutelare sia la persona stessa, sia la collettività».

Sinergia tra professionisti, dunque, ancora in primo piano, e poi ancora: comunicazione tra loro, la capacità di ogni figura professionale di mettersi in discussione, la valutazione dei bisogni reali passo passo con l’evoluzione della patologia, la difesa dei diritti del singolo. A Francesca Succu, presidente dell’Associazione Amministrazione di Sostegno, il compito di illustrare gli istituti giuridici a favore delle persone con demenza, che ha aperto la sua relazione ricordando come fino al 2004 ci fosse bisogno di una sentenza del tribunale per stabilire i malati totali o parziali di mente, incapaci di intendere e di volere, pericolosi per sé o per gli altri.
Con la legge 6 del 2004, invece, che introduce nel codice civile la figura dell’amministratore di sostegno, tutto è cambiato, ancor di più da quando la Regione Veneto è diventata capofila in un progetto per favorire l’istituzione di servizi specifici, percorsi formativi per il personale e l’applicazione del provvedimento in ogni azienda sanitaria.
«La legge – ha sottolineato – obbliga a tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente. Interventi per sostenere la persona che da sola non è in grado di mettere a frutto a pieno le sue capacità di agire, fermo restando il mantenimento di tutte le capacità giuridiche. Non c’è nessuna incapacità: questa legge non è fondata sull’interdizione o sugli aspetti negativi della mancata capacità della persona, ma sull’obbligo, anche istituzionale, di sostenerla, assisterla e rappresentarla per far in modo che possa esprimere le sue capacità». La centralità della persona, insomma, è protagonista vera anche della misura di protezione.
La presidente Succu ha poi illustrato chi può chiedere l’amministrazione di sostegno, a partire dalla persona stessa anche se interdetta – «una vera rivoluzione copernicana», ha aggiunto – la responsabilità della segnalazione da parte dei servizi sociali al pubblico ministero di una persona bisognosa di protezione, il ricorso al giudice tutelare, il decreto emesso “cucito addosso alla persona”, il ruolo dei familiari, spesso indicati come amministratori di sostegno, la cura del patrimonio, che deve essere indirizzato all’esclusivo benessere della persona beneficiaria della tutela.

Di sinergia socio-sanitaria tra ospedale e territorio, di supporto psicologico ai familiari e ai caregiver, di sostegno economico, si è parlato, infine, nell’ultima sessione, moderata da Vania Noventa e da Luca Valentinis, primario di Neurologia-Stroke Unit dell’Ospedale di Portogruaro.
Marino Formilan, geriatra a Dolo, e Marina Centenaro, AS Dimissioni protette degli ospedali del Distretto 3 si sono soffermati sui servizi che possono essere attivati a favore dei pazienti con demenza. Quelli domiciliari, ad esempio, che si attivano attraverso gli assistenti sociali del Comune, l’accesso alle strutture semi-residenziali, centri diurni di raccordo tra residenzialità e domiciliarità «che servono – hanno spiegato – a ritardare il più possibile l’istituzionalizzazione del paziente e il suo decadimento psico-fisico», e a quelle residenziali, i centri per non autosufficienti e per l’alta protezione Alzheimer. «Ogni anno – ha sottolineato preoccupato il dottor Formilan – ho 100 ricoveri in più, stamattina 15 pazienti fuori reparto».
La dottoressa Centenaro ha spiegato, poi, come il suo ruolo sia quello di tradurre l’informazione data dai sanitari al paziente e ai suoi familiari, «non tanto – ha aggiunto – quella terapeutica, quanto quella emotiva. Io mi rapporto con tutti i nodi della rete: dall’assistente sociale del territorio al medico di famiglia, dagli ospedalieri agli operatori dei servizi territoriali», citando, prima di concludere, una lettera arrivata dalla figlia di una paziente che le diceva: “Io mi sono sentita sola, non ero preparata, nessuno mi ha aiutato a capire la malattia, non sapevo cosa decidere”. Un’esperienza, la demenza, che dilania.

Proprio del supporto psicologico alle famiglie si sono occupate la neuropsicologa CDCD del Distretto 3 Florina Tudor e Arianna Ferrari, presidente dell’Associazione Rindola, che hanno illustrato la progettazione partecipata dei Centri Sollievo, «un supporto psico-educativo ai familiari – ha spiegato la prima – per coinvolgerli nella presa in carico del paziente e dar loro le giuste risorse per la sua gestione». Tra i presupposti che regolano l’assistenza: il gran numero di persone affette da demenza in carico alla famiglia, il fatto che il malato stia comunque sempre meglio a casa sua, la minor spesa per il servizio sanitario nazionale.
«Ma – ha aggiunto la neuropsicologa – l’assistenza è difficile se ci sono, ad esempio, disturbi del comportamento: le relazioni all’interno della famiglia cambiano». Bisogna, allora, considerare il burden del caregiver, cioè gli effetti negativi derivati dallo stress e dalla fatica di prendersi cura del proprio congiunto. Le conseguenze sono pesanti sullo stato di salute, su quello psicologico, sul funzionamento cognitivo: calo dell’attenzione, difficoltà nei ragionamenti astratti e nell’elaborazione rapida delle informazioni, instabilità emotiva, bassa tollerabilità della frustrazione.
Il lavoro del Centro Sollievo, allora – che si rifa al progetto Intese dell’ex Ulss 13, che mette insieme azioni specifiche per ogni soggetto coinvolto, azienda sanitaria, comuni e privato sociale – è un esempio di welfare innovativo. «Ogni anno – ha sottolineato Arianna Ferrari – Intese ha affinato la propria progettualità, mai la stessa rispetto all’anno precedente. La responsabilità è condivisa, la progettazione partecipata e parte dal basso. Gli stessi pazienti e familiari diventano responsabili: così si risponde ai bisogni reali». Tra gli obiettivi: la presa in carico continuativa, «fare rete per un’assistenza integrata», l’inclusione della persona con demenza all’interno di una comunità, lo sviluppo delle competenze dei professionisti.
«I risultati – ha concluso la presidente di Rindola – sono evidenti: meno stress del caregiver, meno disturbi del comportamento nel paziente, più abilità di empowermente ed engagement. La chiave è superare il proprio ruolo specifico per fare sinergia delle competenze».

Passati in rassegna tutte le figure e i ruoli chiave per l’assistenza ai pazienti con demenza, ai loro familiari e ai caregiver, l’ultimo tassello, illustrato da Vanni Stangherlin, responsabile dell’Unità Operativa Sociale dell’Ulss 3 Serenissima, è stato quello del sostegno economico, possibile quando la non autosufficienza è certificata e le condizione economiche lo permettono. Il dottor Stanghrlin ha sottolineato come la richiesta debba essere fatta sia in Comune sia al distretto socio sanitario competente, ha illustrato l’iter di erogazione, l’ICD, l’impegnativa di cure domiciliari, i requisiti ulteriori che servono per l’ICDm, il medio bisogno assistenziale, i fondi spesi dall’azienda sanitaria veneziana per l’assistenza: 16,6 milioni di euro nel 2018 e 17,1 nel 2019. «Come vedete – ha concluso – una spesa in costante aumento».

Conclusioni della lunga e articolata mattinata di studi affidate a Maurizio Scassola, vicepresidente dell’Ordine e medico di famiglia, che ha sottolineato ciò che è emerso chiaramente da questo, ma anche dal precedente convegno: come ci sia una responsabilità da parte di tutte le professioni sanitarie rispetto a questi temi. Dopo aver accennato al ruolo sociale del medico, che deve essere inserito e attivo nella propria comunità, al burnout degli operatori sanitari, ai modelli organizzativi da cambiare, anche sporcandosi le mani con la politica, il vicepresidente ha spostato l’attenzione sul ricambio generazionale e sulla formazione. «Serve l’integrazione – ha concluso – tra i soggetti più giovani che iniziano la professione e chi ha più esperienza o è a fine carriera. Questo tema è un modello socio assistenziale di integrazione, di responsabilizzazione, un modello formidabile, potente, delicatissimo… Ma che stressa moltissimo, individualmente, le persone: stressa i malati e i familiari, ma anche gli operatori e il sistema. Senza un progetto formativo strategico questa Regione, l’organizzazione non hanno futuro. Abbiamo bisogno di cambiamenti e senza la formazione non ci potranno essere».

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Provincia di Venezia

Segreteria OMCeO Ve
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