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Disforia di genere: ecco come aiutare i propri pazienti
Data di inserimento: Venerdì, 17/05/19 - Segreteria OMCeO Ve
Interfacciarsi con altri professionisti, conoscere il protocollo di riassegnazione del genere, le implicazioni medico-legali e gli approcci terapeutici, farsi aiutare dalla consulenza bioetica, monitorare e, soprattutto, ascoltare il paziente, che porta con sé già tante incomprensioni, fraintendimenti e spesso anche discriminazioni, essere di supporto alle famiglie nell’accettazione della scelta. Sono solo alcune delle mosse che un medico può fare per aiutare un proprio paziente che sta affrontando l’istanza del cambiamento di genere e rendere più efficace la relazione terapeutica con lui.
Se n’è parlato in modo approfondito, con l’aiuto di tanti esperti, lo scorso 11 maggio in un convegno sulla disforia di genere organizzato a Mestre dall’OMCeO veneziano e dalla sezione lagunare dell’Associazione Italiana Donne Medico (AIDM), guidata da Viviana Zanoboni.
Una mattinata di studio e di analisi per sensibilizzare in particolare i medici del territorio su questa nuova condizione umana, nata da una richiesta di aiuto, inviata da un’associazione di transgender in una lettera portata all’attenzione del Consiglio dell’Ordine, e dall’esperienza diretta di Emanuela Blundetto, medico di famiglia, componente del direttivo e vicepresidente delle Donne Medico veneziane.
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«Siamo qui oggi – ha spiegato salutando i partecipanti il presidente Giovanni Leoni – per parlare di una problematica che riguarda una minoranza della popolazione, ma sono situazioni nuove con cui ci si deve confrontare. Oggi si affronteranno tanti aspetti di questa tematica: lo sfondo psicologico, l’immagine di sé diversa dal proprio essere corporeo, l’origine, l’assistenza, le problematiche medico-legali, le tecniche chirurgiche, l’istanza bioetica».
Impossibilitata a essere presente – al suo posto la past president e MMG Maria Pia Moressa che ha sottolineato come molti professionisti siano impreparati ad affrontare una tematica così complessa – Viviana Zanoboni, a capo di AIDM Venezia, ha comunque fatto arrivare un suo messaggio. «So che oggi – ha scritto su Facebook – è stata una giornata di approfondimento scientifico molto sentito e partecipato. Le mie condizioni di salute non mi hanno permesso di esserci fisicamente, ma ero lì con le colleghe impagabili e insostituibili. Grazie a loro alla loro preparazione tutto si è potuto avverare. Spero alla prossima di esserci. Vorrei che le donne medico crescessero: a chi non conosce ancora l’associazione l’invito ad iscriversi e a farne parte attivamente. C’è ancora tanto da fare!!!!».
Al fianco dell’Ordine e dell’AIDM si sono schierate anche le due aziende sanitarie locali, che hanno patrocinato l’evento. Maria Caterina De Marco, direttore della Funzione Ospedaliera dell’Ulss 4 Veneto Orientale, ha pescato dal proprio vissuto personale, ricordando la sua infanzia in un paese in provincia di Cosenza con un compagno di classe che si sentiva a disagio nel suo corpo. «Con molto coraggio – ha raccontato – la madre lo prese e lo portò a Bologna. La cosa fece molto scalpore. Il suo percorso fu molto difficile, l’esperienza drammatica. A essere supportate devono essere anche le famiglie».
Massimo Girotto, direttore dell’Ospedale Civile di Venezia, ha portato invece i saluti dell’Ulss 3 Serenissima, accennando appena alla sofferenza che il medico si ritrova oggi a vivere nella propria quotidianità.
Due le sessioni in cui è stata divisa la mattinata: la prima – moderata da Maria Pia Moressa e da Cristina Mazzarolo, medico legale e consigliera dell’Ordine – dedicata agli aspetti endocrinologici, a quelli psichiatrici e alle tecniche chirurgiche; la seconda – guidata da Luca Barbacane, medico di famiglia e segretario dell’OMCeO Venezia, e da Debora Turchetto, ginecologa, psicoterapeuta e socia delle Donne Medico – che ha approfondito, invece, gli aspetti medico-legali, le istanze bioetiche, le criticità e i problemi pratici del rapporto tra medico e paziente.
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L’endocrinologo Andrea Delbarba, specialista degli Ospedali Civili di Brescia, ha aperto il convegno dando subito la definizione di disforia di genere, parlando della necessità di un approccio multidisciplinare, illustrando l’epidemiologia – l’incidenza è più alta per i nati maschi che per le nate femmine – e il protocollo di riassegnazione del genere (ONIG, Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere), un iter psicologico, endocrinologico, medico, legale, chirurgico e burocratico per portare una persona ad annullare la dissonanza che sente tra il proprio sesso anatomico e il genere percepito.
«Il percorso iniziale – ha spiegato – è una valutazione diagnostica medico/psicologica che dura almeno sei mesi. Poi comincia la terapia ormonale per eliminare le funzioni e le caratteristiche del sesso biologico di appartenenza e sviluppare il fenotipo a cui ci si sente di appartenere. Parallelamente comincia anche la Real Life Experience che porterà a una relazione conclusiva condivisa, necessaria e obbligatoria per il paziente per il ricorso al Tribunale Civile e l’avvio delle procedure chirurgiche».
L’endocrinologo ha sottolineato poi come al paziente interessi soprattutto sapere cosa succederà durante il percorso e in che tempi si vedranno i primi risultati, come sia importante conoscere gli esami propedeutici da fare e i potenziali effetti avversi delle terapie ormonali, quali monitoraggi debbano essere condotti, l’effetto metabolico, ad esempio, o la salute ossea, la possibilità che questi pazienti divengano cronici per altre patologie «e noi – ha concluso Andrea Delbarba – non possiamo non farci carico della loro salute».
Il punto di vista dello psicoterapeuta è stato illustrato da Silvia Friederici, psichiatra dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre, che si è soffermata in particolare nella disforia di genere che si manifesta negli adolescenti. «La condizione di chi desidera caratteristiche sessuali del genere opposto – ha spiegato – è associata a una forte sofferenza e ha implicazioni importanti sulla qualità della vita. La parola stessa “disforia” sottolinea questa sofferenza».
Dopo aver specificato che essere transgender non è una patologia psichiatrica, la dottoressa ha tracciato i collegamenti tra disforia di genere e salute mentale. «Nelle persone che soffrono di disforia di genere – ha detto – c’è una maggiore incidenza di depressione, ansia, comportamenti autolesionistici e tentativi di suicidio. Questo perché, a causa di questo problema, la loro qualità di vita diminuisce tantissimo, sono spesso oggetto di discriminazione, fin da bambini, più a rischio di stigmatizzazione e autostigmatizzazione, più a rischio di abusi. Entrano in un circolo vizioso per cui sviluppano di più e più facilmente queste altre patologie». Qualche fattore protettivo c’è: avere un lavoro, ad esempio, il sostegno familiare o un livello socio-culturale ed economico elevato, la presa in carico da parte di un centro specializzato. «Di solito – ha assicurato la dottoressa Friederici – le patologie mentali migliorano quando iniziano il trattamento ormonale o chirurgico perché cominciano a uscire dall’incongruenza di genere che li fa soffrire».
Fondamentale, anche se spesso vissuto come un obbligo, il ruolo del terapeuta che è utile per l’accesso ad alcuni servizi, è una figura d’aiuto nel rapporto con gli altri professionisti coinvolti nel percorso, aiuta il paziente a capire ed esplorare la propria disforia e ad affrontare la stigmatizzazione e la discriminazione, può essere di sostegno a lui e ai suoi familiari e favorire il suo reinserimento nella società, cosa non sempre semplice. «Sarebbe importante intervenire – ha concluso – il più presto possibile, già in fase pre-adolescenziale o adolescenziale, per risparmiare al paziente una gran fetta di sofferenze. In Veneto, purtroppo, non ci sono centri specializzati, il più vicino è a Trieste. In ospedale da noi arrivano per lo più persone che hanno già altre patologie».
La parola è poi passata ai chirurghi: Michele Amenta, direttore di Urologia dell’Ospedale di Portogruaro, e Carlo Pianon, già primario di Urologia dell’Ospedale mestrino dell’Angelo, attraverso schemi, fotografie e anche filmati hanno illustrato nel dettaglio le tecniche chirurgiche e le possibili complicanze che può subire chi da uomo diventa donna o chi da donna diventa uomo. Il dottor Amenta ha illustrato in modo puntuale, per entrambi i passaggi di genere, la fase demolitiva e quella ricostruttiva. «Ma – ci ha tenuto a sottolineare – noi trattiamo un paziente che non è malato. Facciamo una terapia chirurgica irreversibile su una persona sana. Potremmo essere tutti condannati per lesioni personali gravissime...».
«Come per ogni tipo di chirurgia – ha detto invece Carlo Pianon – il chirurgo è tanto più bravo quanti più interventi fa. È un campo in cui per ottenere risultati sempre migliori bisogna fare esperienza. Le complicanze sono abbastanza basse. In Italia vengono operate 60/70 persone l’anno, una metà in centri specializzati, le altre in strutture improvvisate. Sono questi i pazienti che poi spesso avviano contenziosi medico-legali».
Per chi diventa da maschio a femmina tra le complicanze citate dall’urologo ce ne sono di funzionali precoci – come, ad esempio, infezioni e sanguinamento, prolasso della neovagina, fistole e incontinenza urinaria – o tardive e di estetiche, le grandi labbra mal ricostruite o l’assenza piccole labbra e l’asimmetria genitale. Nella conversione opposta, invece, si può soffrire di sanguinamenti o infezioni, perforazioni uretrali, vescicali e peritoneali, complicanze uretrali dopo metoidioplastica o dopo falloplastica, diverticoli o stenosi uretrali.
Inquadrato il disturbo e chiariti i contesti, la seconda parte della mattinata si è aperta con Cristina Mazzarolo, medico legale, consigliera dell’Ordine e componente della Commissione Pari Opportunità, che ha analizzato il quadro normativo di riferimento per chi si occupa di pazienti con disforia di genere. «La legge quadro di riferimento – ha spiegato – è la 164 del 14 aprile 1982: prevede un iter complesso, molto lungo, talvolta farraginoso. Le conseguenze sono interventi demolitivi importanti o la sterilizzazione, che rientrano nella fattispecie giuridica delle lesioni personali gravissime».
La procedura prevede la presentazione da parte dell’avente diritto di un’istanza al Tribunale, che mette insieme un pool di specialisti – tra cui però non è menzionato, ad esempio, il medico di famiglia – che raccoglie i dati scientifici e tecnici per il Tribunale che, sulla loro base, deciderà se autorizzare o meno la trasformazione. «Bisogna avere – ha sottolineato il medico legale – elementi certi. Fare una diagnostica, valutare eventuali patologie organiche, legate ad esempio all’abuso di alcol o droghe, che possono ostacolare il processo trasformativo, verificare l’integrità cognitiva dell’individuo. Raccolti e analizzati i dati, il giudice autorizzerà o meno la trasformazione con una sentenza che deve passare in giudicato. Una pronuncia importante della Corte Costituzionale del 2015 ha corretto un’interpretazione che fino ad allora si era data per scontata: il soggetto non deve obbligatoriamente sottoporsi a intervento chirurgico demolitivo lì dove abbia già raggiunto la propria serenità psico-fisica».
Un tema, quello della disforia di genere, di cui si sta parlando all’Ordine perché è cambiato il mondo sotto il profilo della conoscenza, della tecnica, della pratica medica. Sono cambiati ormai anche il concetto di salute e il rapporto tra medico e paziente. «Anche se la definizione di disforia di genere è uguale per tutti – ha spiegato Giovanna Zanini, presidente del Comitato Etico per la Pratica Clinica dell’Ulss 3 Serenissima – la situazione va affrontata caso per caso. Per questo la riflessione etica ci sta: abbiamo l’esigenza di dare una giustificazione etica che orienti e giustifichi le scelte».
La bioeticista si è soffermata in particolare sul ruolo che la consulenza bioetica può giocare – aiutando i professionisti a familiarizzare con termini e concetti di vari linguaggi e a controllare emozioni e giudizi, facendo emergere conflitti e problematiche, valutando i possibili percorsi d’azione – nel trovare le giuste risposte e sui principi – di beneficenza, di non maleficenza, di autonomia e di giustizia – che devono regolare l’operato dei medici. «Nel caso della disforia di genere – si è chiesta – cosa è meglio fare? È meglio subire le sofferenze legate al mancato riconoscimento nel proprio sesso d’origine o cambiare genere? È sempre giusta la scelta della chirurgia o dipende caso per caso? E secondo che criteri il medico decide?».
Pur non togliendo alcuna responsabilità a chi deve decidere, la consulenza etica può affiancarsi agli operatori sanitari, trovare la strada per agire nel modo più sereno possibile sia nella fase della diagnosi, sia nel percorso di presa in carico, sia nella comunicazione con il paziente. «C’è poi la questione – ha concluso Giovanna Zanini – del consenso informato: ricordatevi che il paziente ha diritto di scegliere, anche di rifiutare in tutto o in singoli atti un trattamento sanitario. Nel caso della disforia di genere, come in molti altri, servono una riflessione multidisciplinare, percorsi strutturati, attenzione al singolo caso, formazione degli operatori e dei cittadini».
In chiusura del convegno è arrivata, infine, la testimonianza sul rapporto medico-paziente, sulle criticità e i problemi pratici da affrontare di Emanuela Blundetto, dalla cui esperienza personale con due assistiti è nata l’idea stessa di affrontare questa tematica. «È difficile capire – ha detto – quale sia l’identità di genere di una persona. Dove si nasconde l’identità? Nel naso? In come ci vestiamo? Nei nostri piedi? Se ne perdessimo uno, perderemmo l’identità? No di certo. L’identità si nasconde nel nostro cervello che, a contatto con il corpo e con l’ambiente circostante, costruisce il nostro io. La disforia di genere non è una scelta dell’individuo, non è un orientamento sessuale, non deriva da un problema mentale e non è un comportamento immorale».
Piombata in questo mondo 5 anni fa con una sua paziente che stava affrontando il processo di trasformazione, la dottoressa Blundetto si è dovuta aggiornare in fretta. Tanti i consigli che ha dato ai colleghi medici di famiglia: l’importanza dell’ascolto, innanzitutto, e delle sofferenze che queste persone portano inevitabilmente con loro e la capacità di anamnesi, attraverso le patologie pregresse, la familiarità, i trattamenti già affrontati, i farmaci già assunti e i loro eventuali effetti collaterali, le eventuali patologie concomitanti, l’anamnesi sessuale.
«Il nostro atteggiamento – ha sottolineato – permetterà al paziente di fidarsi di noi e di darci tutte le informazioni utili per concordare, ad esempio, un piano di trattamento e di opportuni controlli o per chiarire i dubbi e gli eventuali danni provocati dalla prescrizione di farmaci off-label. Queste persone, poi, possono ammalarsi di altre patologie comuni, diabete o ipertensione, ad esempio… Allora il nostro ruolo deve essere anche quello di sorvegliare l’insorgenza di queste patologie. E non dimentichiamoci, infine, dei parenti, anche loro spesso nostri pazienti, e delle difficoltà che possono avere ad accettare la situazione. Dobbiamo aiutarli».
È un quadro complesso quello che si è delineato durante il convegno, in cui sono affiorati tanti dubbi a partire dal comportamento da avere nei confronti del paziente che chiede la prescrizione di farmaci off-label e dalla possibilità di avere informazioni utili sulla materia. Tante le domande che i partecipanti hanno rivolto ai relatori, per alcune delle quali, almeno per ora, non si è trovata risposta. Il percorso da fare è ancora lungo, ma alla base c’è una consapevolezza: poter vivere in pace con se stessi è un diritto umano inalienabile. E i medici sono pronti a farlo valere per ognuno dei loro pazienti.
Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Provincia di Venezia
Segreteria OMCeO Ve
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