Donazioni e trapianti sicuri? Serve l’aiuto del medico di famiglia

Una figura centrale, quella del medico di famiglia, nel percorso che porta dalla donazione al trapianto. Per tre ottime ragioni: innanzitutto perché, grazie al suo rapporto privilegiato di conoscenza e di fiducia con i pazienti, può riuscire a trasmettere loro il senso e la necessità del dono, tutte quelle buone informazioni, utili e corrette, per dare alle persone la possibilità di fare una riflessione ragionata e una scelta convinta. Il medico di medicina generale, poi, agisce sul territorio, su un vasto bacino di utenza, proprio lì dove enti e associazioni hanno bisogno di arrivare. Terza ragione: «Perché voi – ha spiegato Diego Ponzin, direttore medico della Fondazione Banca degli Occhi – siete nostri compagni di lavoro silenziosi, indispensabili nel processo per determinare la sicurezza e la qualità dei tessuti che vengono donati. Dalla donazione al trapianto chiediamo spesso il vostro aiuto».
Rafforzare il dialogo con i medici di famiglia per diffondere il più possibile la cultura della donazione è stato, dunque, uno degli obiettivi del convegno Donazioni: vite per la vita, organizzato al Centro Urbani di Zelarino lo scorso 23 marzo dalla Fondazione Ars Medica, per conto dell’OMCeO veneziano, in stretta sinergia con la Fondazione Banca degli Occhi, eccellenza territoriale, riconosciuta a livello nazionale e anche europeo, in materia di trapianti di cornee.

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«Questo argomento – ha detto il presidente dell’Ordine e vicepresidente della FNOMCeO Giovanni Leoni accogliendo i partecipanti e ricordando i primi trapianti di rene negli anni Ottanta eseguiti a Padova dal professor Ancona e dal suo staff – è forse desueto, ma molto importante sotto il profilo etico. La psicologia della donazione può essere costruita nel tempo, ma può essere anche una sorpresa, una possibilità che avviene in una rianimazione, quando non c’è più speranza per il paziente. In quel momento nella testa del medico passano tutti i possibili riceventi. Solo sensibilizzando le coscienze a livello globale, si potranno ottenere poi i successi legati alla tecnica chirurgica. Questo è un ambito di sinergia tra etica e tecnica».
«Credo sia molto importante – ha spiegato Ornella Mancin, presidente dell’Ars Medica – riscoprire il senso e il valore del dono. A mio avviso il dono corrisponde a una modalità di essere: nel caso della donazione si dà qualcosa di così tanto importante da permettere a qualcun altro di vivere. Per noi medici di famiglia, che spesso dobbiamo aiutare i parenti del possibile donatore ad accettare il loro momento di lutto e a viverlo nel modo migliore, è fondamentale conoscere tutti i passaggi».

«Non c’è trapianto – ha aggiunto Enrico Vidale, responsabile comunicazione della Banca degli Occhi – se non c’è donazione. Non c’è trapianto se non c’è prima un sì di una persona che decide consapevolmente di donare». Per questo, prima di affrontare gli aspetti tecnici della questione e sentire le voci dei vari protagonisti per creare un quadro il più possibile completo, la parola è andata a Umberto Curi, professore emerito di Storia della filosofia all’Università di Padova: a lui il compito di delineare il concetto di dono e il valore della gratuità.
Citando Seneca, il suo De beneficiis e il mito classico delle Tre Grazie, il filosofo ha analizzato il tema della circolarità: da un lato il dono viene dato, ricevuto e restituito, dall’altro, la sequenza dei doni passa di mano in mano, torna indietro a colui che ha iniziato la circolazione e non può essere interrotta altrimenti viene meno la struttura stessa del dono.
Dopo aver spiegato, con un accenno forte anche all’attualità, come in epoca classica l’ospitalità fosse il paradigma del dono «perché ciò che si dona ospitando è la cosa più preziosa, è la casa, il luogo degli affetti, in cui si esprime l’identità di ognuno», il professor Curi ha sottolineato come la circolarità sia presente anche in epoca moderna, in un modo però del tutto diverso.
«La circolarità – ha detto – è alla base di un’antropologia e di una visione specifica della società, quella dell’homo economicus, il cui comportamento nasce dall’espressione massima dell’egoismo. In questo tipo di società i legami sociali che dominano sono la reciprocità e lo scambio tra equivalenti: ogni comportamento individuale deve avere una risposta in cambio. Dò qualcosa per ricevere in cambio qualcosa dello stesso valore».
Una visione dominata dal contratto, in cui non c’è mai l’occasione di un dono gratuito, in cui c’è sempre un corrispettivo tra il dare e l’avere. «Ciò, quindi, che caratterizza il dono – ha concluso il filosofo – è che è tale se nulla torna indietro al donante. Il dono è ciò che dò in cambio di nulla, rompe e viola il circolo, la logica dello scambio tra equivalenti. Il dono, inoltre, per mantenere il suo carattere di totale gratuità, non deve essere riconosciuto come tale. Non è sufficiente che non abbia il corrispettivo economico, anche la gratitudine può essere considerata un corrispettivo», idea però quest’ultima non del tutto condivisa dai partecipanti al convegno.

Dopo aver tracciato il quadro di contesto, si è entrati nel vivo degli aspetti tecnici: l’anestesista Marzia Bellin e l’infermiera Barbara Franzoi, coordinatrici ospedaliere dei trapianti dell’Ulss 3 Serenissima, hanno illustrato le leggi legate al mondo della donazione da vivente e da cadavere, i vincoli per la sicurezza dei trapianti, i requisiti per diventare donatore d’organo, il difficile ruolo di chi, in reparto, deve accompagnare i familiari in un momento di lutto, ma anche proporre la possibilità di un gesto generoso.
«La legge – ha sottolineato la dottoressa Bellin spiegando come avviene l’accertamento del decesso – ci definisce la morte: è la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo. Non c’è alcun dubbio: alla fine delle 6 ore di osservazione il paziente è morto. C’è chi dice: “Mi fate morire perché vi servono i miei organi”. Assolutamente no! Prima c’è tutta la cura del paziente, la donazione è un’ipotesi solo alla fine, quando non c’è più alcuna possibilità perché il paziente ha smesso di vivere». Alla donazione, dunque, si comincia a pensare solo dopo, cercando di capire se il paziente abbia espresso in merito la propria volontà e, in caso, analizzando i criteri che possono portare all’esclusione dalla donazione di organi e tessuti.
Barbara Franzoi, invece, ha illustrato il delicato ruolo dell’infermiere nel processo di donazione: deve valutare l’idoneità del possibile donatore, controllare se il paziente abbia espresso una volontà, contattare prima il medico di famiglia, per capire lo stato di salute e le eventuali patologie, poi il centro trapianti e le banche degli occhi e dei tessuti per valutare la possibilità di un trapianto.
«L’infermiere – ha sottolineato – accompagna la famiglia nella prima elaborazione del lutto, abbraccia la famiglia, è la parte materna della relazione, mentre il medico è quella paterna. Dobbiamo conoscere le fasi del lutto e lasciare il tempo ai familiari di elaborarlo. Una delle nostre risorse più grandi è il silenzio: ci avviciniamo alle famiglie in punta di piedi».
L’infermiere, poi, organizza attività formative sulla donazione sia per i medici sia per la popolazione. «Scegliamo di fare questa attività – ha concluso – perché è un’alta specializzazione che arriva dopo aver trascorso tanto tempo in terapia intensiva, perché è un lavoro qualificante e gratificante, a volte anche terapeutico, perché ha una forte componente motivazionale e perché possiamo lavorare in squadra».

La parola è poi passata a chi lavora ogni giorno sul campo alla Banca degli Occhi di Mestre e a quella dei Tessuti di Treviso, altra eccellenza territoriale. Con l’aiuto di un paio di video, Diego Ponzin, direttore medico della Banca degli Occhi, ha parlato della donazione e del trapianto di tessuti oculari, di dimensioni piccolissime e trasparenti, e ha spiegato come il contatto con i medici di medicina generale sia fondamentale per garantire il grado di sicurezza del trapianto.
«Quella che vedete – ha spiegato è una cornea malata con un’opacità al centro. Un’opacità di questo tipo determina una cecità funzionale, ma è un’infezione che può essere risolta se presa in tempo: si può restituire la vista senza dover sostituire la cornea».
Il dottor Ponzin ha anche illustrato l’ultima frontiera del trapianto, le cornee pre-tagliate preparate per ogni singolo paziente, spiegando come si cerchi sempre meno di trapiantare l’intera cornea, concentrandosi di più solo sullo strato malato del tessuto, lavorando in day hospital, in anestesia locale e con un uso sempre meno frequente di fili di sutura. «Per lavorare a questi tessuti e realizzare il trapianto – ha aggiunto – servono una ventina di persone. I tessuti oculari che vengono donati in Veneto sono tanti: tra i 5mila e i 6mila ogni anno. In Italia si fanno normalmente 6-7mila trapianti di cornea, di cui la metà con tessuti donati in Veneto. È un buon numero? Sì. È sufficiente? Siamo abbastanza vicini a coprire il fabbisogno».
Numeri importanti anche quelli della Banca dei Tessuti di Treviso, che si occupa del prelievo, del trattamento, della conservazione – perché a differenza degli organi i tessuti possono essere conservati – della distribuzione e del controllo di qualità e sicurezza, come ha spiegato la responsabile comunicazione Daniela Vici. «Stiamo in mezzo alla rete – ha detto – tra donazione e trapianto. Nel 2018 abbiamo avuto 161 donatori per prelievi multitessuto, un’eccellenza per la Regione Veneto perché copriamo il 67% dei prelievi in Italia. Da una donazione possiamo prelevare 30-40 tessuti: di una sola donazione, dunque, possono beneficiare potenzialmente 30-40 pazienti. I tessuti distribuiti nel 2018 sono stati 5.952».
Teste di femore, placenta, vene safene, valvole cardiache – particolarmente usate in ambito pediatrico perché hanno il vantaggio enorme di crescere insieme al bambino – teche craniche e altri tessuti autologhi, i tessuti che possono essere prelevati, controllati, validati e conservati. «Questi risultati – ha concluso – si ottengono grazie all’aiuto di tutti. È un processo con tantissimi attori ed è fondamentale la collaborazione».

Più specificatamente sulla funzione dei medici dei famiglia si è poi soffermata la dottoressa Ilaria Zorzi, responsabile del Coordinamento Interno Procurement della Banca degli Occhi, che partendo da due casi concreti, ha raccontato il ruolo che possono giocare questi professionisti nell’ambito della donazione, in particolare per la sicurezza del trapianto.
«Per noi – ha spiegato – è una buona pratica raccogliere l’anamnesi dei nostri donatori con i medici di medicina generale. I tessuti ci arrivano accompagnati dalla documentazione clinica del donatore e il nostro lavoro è assicurarci che i donatori abbiano avuto una storia clinica tale per cui i tessuti siano liberi dalla possibilità di trasmettere patologie al ricevente. Dai medici di famiglia, che sono per noi la figura più efficace in questo senso, raccogliamo informazioni non solo precise ma anche attuali».
Dopo aver illustrato le indicazioni e le controindicazioni per donare le cornee – c’è, ad esempio, un limite d’età che va dai 4 ai 79 anni e ci sono patologie per cui non si può accettare la donazione, quelle ematologiche ad esempio – la dottoressa Zorzi ha raccontato due episodi realmente accaduti che hanno permesso di escludere i due pazienti dalla donazione. Nel primo caso, una “familiarità sconosciuta per Jakob Creutzfeldt disease”, il medico di medicina generale ha riferito alla banca semplici “voci di paese”, che però hanno permesso di far scattare un accertamento clinico e di aprire una questione medica mai considerata in precedenza, e neppure sospettata, per quel paziente. Nel secondo caso, invece, il medico di famiglia ha raccontato di “recenti e strani problemi relazionali della paziente sul lavoro, una sorta di cambio di personalità” che poteva far pensare a problemi di tipo neurologico. Elementi utili per completare la selezione e che, dopo i dovuti accertamenti, hanno spinto la banca a decidere di non avere un grado di sicurezza tale da permettere il trapianto.
«Il rischio che abbiamo corso in entrambi i casi – ha aggiunto – è stato di distribuire tessuti potenzialmente pericolosi. Nella valutazione della selezione dei donatori, dunque, il medico di medicina generale è una fonte inesauribile e inestimabile di informazioni perché, oltre all’anamnesi patologica, porta dettagli sia della vita sociale sia del contesto ambientale del paziente. Ci permette così di aprire dubbi clinici fino a quel momento mai considerati o di risolvere questioni rimaste aperte rispetto alla causa o alle circostanze del decesso del donatore».

L’ultima parte della mattinata è stata dedicata alle esperienze dirette con una tavola rotonda guidata da Gabriele Gasparini, neuroradiologo e vicepresidente della Fondazione Ars Medica, che ha lasciato subito la parola a due protagonisti su versanti opposti della donazione: Fausta Tocchio, capace di donare gli organi del figlio Jacopo morto il giorno di Natale del 2010 per una crisi asmatica fulminante ad appena 21 anni, e Ferruccio Milano, un paziente trapiantato.
«Il mio rapporto con i medici – ha detto la signora Tocchio rendendo omaggio agli operatori sanitari – è stato di estrema eleganza. Loro mi hanno dovuto comunicare la morte di mio figlio: ci hanno avvicinato con delicatezza, rispetto, dignità, mostrandoci tutto il loro dispiacere per non essere riusciti a salvare Jacopo. Voi spendete la vostra vita umana e professionale per gli altri, mi sono chiesta spesso come riusciate a farlo, a essere pronti un’ora dopo a salvare un’altra vita. È questo l’immenso valore che spesso noi familiari, chiusi nel nostro momento di dolore, non vediamo a sufficienza».
Una mamma che ha parlato anche di come i ragionamenti sulla morte siano spesso ancora un tabù, anche in famiglia, qualcosa da allontanare e da esorcizzare, e di quanto bisogno ci sia, per tutti, di formazione e informazione: parlare di quanto sia importante donare. «Perché non donare? Donare – ha concluso – è un gesto semplice, come fare una carezza a qualcuno. Dovrebbe appartenere ad ogni civiltà. Jacopo non è qui con me, e sarebbe la cosa più importante, ma Jacopo mi insegna a vivere ogni giorno».
«Io ci sono davvero passato – ha raccontato a sua volta Ferruccio Milani – ho vissuto davvero dal dramma alla meraviglia. Ero un uomo morto: ho aspettato 12 mesi e 12 giorni il mio trapianto. Mi sento un miracolato speciale. Speciale perché qui il miracolo è fatto tutto da uomini: il donatore, i suoi familiari, i medici e il personale sanitario». Parole lucide e intrise di verità da chi, in modo semplice, ha voluto ringraziare tutti per avergli dato una seconda vita, da chi ha spiegato come sia profondo il turbamento di chi riceve un organo, generato dal dover accettare l’idea che la propria vita dipenda da quella di qualcun altro che finisce. «Ho metabolizzato quest’idea – ha aggiunto – solo perché io stesso sono diventato a mia volta donatore. Io ho ricevuto un dono straordinario e sono grato a chi me l’ha fatto in modo libero, silenzioso e gratuito».
Nel confronto, spazio anche a Bertilla Troietto, presidente regionale dell’Aido, l’Associazione Italiana per la Donazione di Organi, che ha sottolineato come sia necessario «promuovere la donazione – ha detto – affinché le persone facciano una scelta libera e consapevole». L’ente ha tra i suoi obiettivi anche quello di perseguire la cultura della prevenzione, gli stili di vita sani e corretti per evitare, per quanto possibile, l’insorgenza di malattie che possano portare poi all’esigenza del trapianto. «Le persone – ha aggiunto – non manifestano la loro volontà se non sono informate. Per questo bisogna lavorare tutti assieme a partire, ad esempio, dalle scuole: per far sì che il cittadino scelga con consapevolezza. Non perché è buono, sensibile o generoso, ma perché capisce che è un dovere verso la società».
«In linea di massima – ha chiosato il medico di famiglia e segretario dell’Ordine Luca Barbacane – siamo tutti favorevoli alla donazione, noi, i nostri pazienti, i familiari… Ma poi, quando ti tocca, è tutt’altro che facile. La tempistica è stringente, fulminea, sono eventi che capitano rapidamente, l’elaborazione tutt’altro. Il nostro ruolo può andare in questa direzione sia nel sostenere chi perde una persona cara, sia nell’accompagnare la famiglia del ricevente. “Mi fanno morire” è un timore che circola tra i nostri pazienti: è importante per noi conoscere gli aspetti tecnici, che non sono mai abbastanza chiari, e spiegare bene ai pazienti che non è così. Tutto questo di sicuro passa anche attraverso l’ambulatorio del medico di famiglia».

Sono tante le parole da portarsi a casa dopo questo convegno: donazione di organi che è dono di vita; la necessità di completare le leggi, con l’impegno di tutti; la rete, indispensabile perché una società proceda in modo equilibrato; la relazione che ogni medico deve imparare ad avere con i pazienti; la tecnologia, davvero essenziale nell’ambito dei trapianti. «L’Italia – ha concluso il dottor Gasparini – dona. Il Veneto dona, e di questo sono orgoglioso. Lo fanno di più le donne e non sarà un caso», ma si può e si deve fare ancora di più e ancora meglio. E serve davvero l’impegno di tutti.

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Provincia di Venezia

Segreteria OMCeO Ve
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