Donne disabili e violenza: un tabù da sdoganare. Formazione e rete per battere l’invisibilità

Un dato su tutti: il 36% delle donne disabili è vittima di violenza. Una violenza di cui di fatto non si parla mai, che sparisce dalle statistiche, che rende un inferno la vita di queste persone che devono già affrontare quotidianamente le loro fragilità. In sostanza una violenza che resta invisibile.
Proprio per cominciare a portarla alla luce, allora, la Commissione Pari Opportunità dell’OMCeO veneziano, guidata da Alessandra Cecchetto, ha organizzato il convegno on line Leggere l’invisibile – La violenza contro la donna disabile, che si è svolto venerdì 2 e sabato 3 ottobre, il primo organizzato dall’Ordine nell’era Covid e patrocinato dalla FNOMCeO, dal Consiglio d’Europa, dalla Regione Veneto, dai Comuni di Venezia e San Donà di Piave, e dalle due aziende sanitarie territoriali, l’Ulss 3 Serenissima e l’Ulss 4 Veneto Orientale.

Il convegno si è aperto con i saluti istituzionali del presidente e vice FNOMCeO Giovanni Leoni e di Silvia Lasfanti, vice sindaca del Comune di San Donà di Piave e assessore alle Opportunità Sociali. «Il tema – ha sottolineato la vice sindaca auspicando che possa partire una collaborazione per sensibilizzare anche la cittadinanza e che si possa attivare una rete di sostegno e di supporto – è delicato e scottante. Delicato perché è difficile riconoscere i segni della violenza in donne che hanno una fragilità importante e scottante perché non se ne parla molto».
«Con la CPO – ha aggiunto il presidente Leoni – il nostro Ordine si è occupato spesso negli ultimi anni di violenza, nei suoi vari aspetti. Sono argomenti scomodi, ma che devono essere portati alla luce. Sono situazioni che fanno parte del nostro contesto sociale e che, forse, sono anche molto più frequenti di quanto uno possa immaginare».

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Ad aprire i lavori della due giorni è stato Roberto Mazzini, psicologo e formatore, ma anche fondatore della Cooperativa Giolli di Parma, che ha presentato l’interessante Progetto europeo Vivien, acronimo che sta per VIctim VIolence Educational Network – An educational project to improve the ability to assist women victims of violence, un progetto che mira a migliorare la capacità dei professionisti di assistere le donne che subiscono violenza, in particolare quelle disabili.
Questo il presupposto dell’analisi: se riconoscere la violenza subita da una donna o da un’adolescente è spesso un compito difficile per gli operatori sanitari, questa difficoltà aumenta di molto nel caso ci si trovi di fronte a una disabile. E poi una domanda: perché ancora tanta violenza contro le donne nonostante gli ingenti investimenti fatti per la formazione degli operatori sanitari, scolastici, sociali, delle forze dell’Ordine?
Cinque i motivi individuati dal dottor Mazzini: l’impreparazione dei professionisti, il turno over del settore che sposta ad altri servizi gli operatori formati, la discrepanza tra gli operatori formati e i loro responsabili, i training basati solo sulle informazioni, gli stereotipi dei professionisti riguardo al genere. In particolare la discrepanza tra gli operatori formati e i responsabili e il training solo informativo producono un’incapacità di accogliere la vittima nelle strutture deputate, che sfocia poi in un’ulteriore violenza e in una conseguente sfiducia nelle istituzioni.
Nasce da qui un numero sempre troppo basso di denunce, nasce da qui anche la mancata presa di coscienza collettiva di quanto sia grave ed esteso il fenomeno. «Su una stima di 31 milioni di donne disabili in Europa – ha sottolineato Mazzini – di cui il 34% ha vissuto una violenza fisica o sessuale, non sappiamo se e quante denunciano. Sappiamo che in generale le donne violentate denunciano solo nel 12% dei casi. Che percentuale delle donne con disabilità? Non è dato sapere...». Proprio su queste 5 criticità, allora – proponendo ad esempio training non solo bastati sull’informazione ma sull’esperienza – si sofferma l’azione del Progetto Vivien con l’obiettivo di colmare le lacune sulla formazione tanto evidenti.

Il confronto tra 4 realtà europee sulla formazione degli operatori sanitari nell’ambito della violenza contro le donne, il tema approfondito poi da Nadia Monacelli, ricercatrice del dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali e componente del collegio docenti del dottorato di ricerca in Psicologia Sociale del Dipartimento di Psicologia all’Università di Parma.
«Nel mondo accademico – ha sottolineato – ci sono moltissimi studi e pubblicazioni sulla violenza contro le donne, ricchi di analisi e dati, ma privi di proposte, in particolare se si parla di donne disabili».
Nei 4 paesi analizzati – Italia, Finlandia, Croazia e Bulgaria – le risposte a un questionario di verifica sulla formazione avuta dagli operatori ha dato di fatto gli stessi risultati. In 3 paesi su 4 gli operatori erano prevalentemente donne; solo in Bulgaria ai questionari hanno risposto più uomini, ma per un motivo preciso: alla ricerca hanno aderito i poliziotti. In Italia hanno risposto più insegnanti, in Finlandia più operatori sanitari.
Dall’analisi è emerso che proprio gli operatori hanno difficoltà a riconoscere il fenomeno della violenza sulle donne come legato alla struttura patriarcale della società e che solo i croati riconoscono il rischio di vittimizzazione secondaria della donna.
Si è notata poi una discontinuità dei progetti formativi, «troppo legati – ha spiegato la professoressa Monacelli – a finanziamenti contingenti e che dovrebbero invece far parte della formazione curricolare universitaria dei professionisti. Operatori formati aiutano la donna ad arrivare alla denuncia, necessaria per il cambiamento sociale».

Tanti i dati sulla violenza illustrati nel suo intervento da Metella Dei, ginecologa ed endocrinologa, a lungo attiva a Firenze nell’Azienda universitaria ospedaliera Careggi, per organizzare servizi contro l’abuso e la violenza sessuale, e oggi concentrata sulla formazione degli operatori sociosanitari non solo nell’ambito della violenza.
«Disabilità e violenza – ha denunciato in apertura della sua lectio magistralis – condividono trasversalità, invisibilità e necessità di una rete di servizi. La violenza di genere è molto più comune di quanto si pensi: i dati europei ci dicono che fino ai 15 anni una donna su 3 ha subito violenza fisica o sessuale; una su 2 aggressioni sessuali; una su 20 è stata stuprata e una su 5 ha subito stalking. E questo solo per le violenze fisiche: quelle psicologiche ed emotive sono ancora più difficili da individuare».
Guardando poi alle persone disabili, un minore con disabilità intellettiva ha un rischio 2 o 3 volte maggiore di subire un maltrattamento fisico. La probabilità di denunciare un abuso sessuale è di 2 volte e mezzo superiore e, come se non bastasse, i minori disabili hanno anche un alto rischio di essere bullizzati, dai compagni o addirittura dai fratelli.
Una questione rilevante perché le persone con disabilità sono 15 su 100. «Il lavoro da fare – ha aggiunto la dottoressa Dei – è molto, tenendo ben presente l’intersezione tra disabilità e violenza: i dati disponibili vanno diffusi per arrivare alla consapevolezza del problema; vanno letti i documenti internazionali e nazionali; vanno valorizzate le esperienze e i progetti; garantita l’accessibilità dei disabili ai servizi e alle risorse informative; pensate delle adeguate politiche nazionali e locali. Senza dimenticare, infine, l’interfaccia col mondo giudiziario».

Assente per motivi di salute, Rosalba Taddeini, psicologa di Differenza Donna, il Centro Antiviolenza di Roma unico in Italia ad occuparsi di donne disabili che hanno subito violenza, ha inviato un video con la storia di due pazienti, seguite personalmente da lei, donne con disabilità intellettiva e fisica. Storie atroci di violenza fisica, sfociata anche nello stupro, psicologica ed economica.
«Le donne con disabilità – spiega la dottoressa nel filmato – non hanno accesso a un’educazione sessuale come le donne senza disabilità. Non denunciano la violenza perché non la riconoscono. Come è molto frequente il non riconoscimento da parte dei servizi, dei medici, degli psicologi di violenza su donne con disabilità, soprattutto se la disabilità è cognitiva perché pensano sia legata a una malattia o a una fantasia della donna».
La consapevolezza da raggiungere per le vittime è, dunque, un obiettivo primario, ma anche la non sottovalutazione dei casi da parte degli operatori sanitari. La via d’uscita sono le strutture protette e i percorsi di comprensione al loro interno: far capire a queste donne che quello che hanno vissuto non è normale, che è una violenza fisica e sessuale. Da qui anche la necessità di ricevere un’adeguata educazione affettiva e sessuale, con il coinvolgimento anche dei genitori, spesso troppo soli ed esausti.

«Grazie al lavoro di oggi – ha sottolineato Alessandra Cecchetto, coordinatrice della CPO chiudendo i lavori della giornata – abbiamo qualche elemento in più per acquisire quella consapevolezza che ci può rendere più attenti e cambiare il nostro tipo di atteggiamento, cercando anche di uscire dagli stereotipi che inevitabilmente ci coinvolgono nell’incontrarci con una persona disabile».

E proprio l’attenzione, l’accoglienza, l’ascolto, quella diversa consapevolezza degli operatori sanitari da raggiungere sono stati al centro delle riflessioni del sabato, nell’ampio spazio dedicato al Teatro Forum, sperimentato on line per la prima volta ma risultato comunque vincente e coinvolgente, e in quello della tavola rotonda a cui si è aggiunta, oltre alle relatrici del venerdì Nadia Monacelli e Metella Dei, anche Pamela Ceraudo, psicologa clinica e terapeuta EMDR, che collabora dal 2009 con il Centro Antiviolenza di Parma e riveste il ruolo di trainer nel progetto Vivien.
Due le scene, tratte da storie vere, raccontate dagli ottimi attori della Cooperativa Giolli, coordinati da Roberto Mazzini e da Massimiliano Filoni. Nella prima protagonista è una ragazza che una volta all’anno va con la madre dal medico di famiglia: è incinta e chiede di abortire. Un medico che non parla mai con lei e che non l’ascolta, che non approfondisce la situazione, nonostante i dubbi sollevati da una collega, che si limita a un: “Certe disabili sono molto affettuose e gli uomini possono fraintendere”. Un medico che non vede la violenza sessuale, anche di gruppo, di cui è ripetutamente vittima la paziente, a causa del patrigno e dei suoi amici.
Nella seconda scena un’altra donna aspetta di parlare con la propria psicologa al centro di salute mentale. “Ho l’ansia, ho l’ansia” ripete quasi ossessivamente e per tutta risposta la terapeuta propone esercizi di respirazione per vincere gli attacchi di panico. “Non ci sono evidenze, non spetta a me intervenire, forse si inventa tutto” si ripete la professionista. Identico atteggiamento anche degli operatori del Pronto soccorso, a cui ripetutamente la vittima, picchiata a casa, si rivolge.
Si introduce qui l’elemento interessante della formula del Teatro Forum: le scene vengono ripetute con la possibilità da parte dei partecipanti al convegno di “interpretare” uno dei ruoli per cambiare il corso della storia. Ed è così, allora, che nella prima scena, ad esempio, il medico di famiglia si assume la responsabilità di quanto sta ascoltando, chiede di parlare da solo con la vittima, cacciando fuori la madre dall’ambulatorio. Ecco, allora, che se la psicologa della seconda scena non fosse sola ad affrontare la sua paziente ma sostenuta da un’équipe, forse i dubbi, e quindi la violenza, emergerebbero.

A partire anche dai tanti spunti offerti dal Teatro Forum e da un nuovo video, più ampio, arrivato dalla dottoressa Taddeini con storie vere di pazienti, tre domande hanno fatto da filo conduttore della tavola rotonda:

  1. spesso è difficile credere a una donna che denuncia una violenza. Ancor di più se la donna presenta qualche tipo di disabilità. Se poi questa disabilità non è fisica ma psichica... Quali sono gli elementi per un medico o un operatore sanitario per capire che deve aprirsi all’ascolto, che deve credere a questa donna e che deve attivarsi per aiutarla?
  2. le statistiche sulla violenza alle donne con disabilità sottolineano spesso un dato preoccupante: solo una parte delle vittime – il 33% dice una ricerca svolta in collaborazione l’anno scorso da FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell'Handicap) e Differenza Donna – riconosce la violenza come tale e spesso, dunque, continua a subirla... C’è dunque un problema di consapevolezza. Come affrontarlo?
  3. Quali sono, infine, i modi e gli strumenti per far emergere questa violenza invisibile?

«Da un lato – spiega la dottoressa Dei rispondendo alla prima domanda – deve circolare la brutta consapevolezza dei numeri, poi ci vuole quel minimo di confronto e di formazione che aiuta a trovare le modalità d’ascolto e le parole per chiedere. Qualcuno ce le ha più naturalmente, qualcuno meno. Come dire, come chiedere quando dall’altra parte non ci sono parole. È qualcosa che si apprende mettendosi alla prova».
Sul fronte della scarsa consapevolezza da parte delle vittime di essere tali, «occorre – ha sottolineato la dottoressa Monacelli – che il tema sia sdoganato a livello di discorso pubblico, si senso comune. Parlare di violenza di genere ha richiesto mezzo secolo di lavoro, ora occorre che anche di questo tema si possa parlare, che non sia un tabù. Sulla violenza contro le donne disabili siamo ancora ben lontani, purtroppo. Il personale sanitario può fare molto in questo senso: sdoganare il tema e prenderlo come una delle possibilità dell’esistenza. Una cosa che può succedere. Normalizzare il discorso per renderlo possibile per chi lo deve raccontare».
Tra gli strumenti, poi, per far emergere questa violenza invisibile, devono esserci necessariamente la possibilità:

  • di parlarne, anche in modo esteso sul territorio, condividendo le esperienze di formazione;
  • di strutturare un livello minimo di formazione che richiede, però, anche un finanziamento adeguato;
  • non lasciare alle doti individuali la qualità di questi interventi: devono essere messi a sistema attraverso il coinvolgimento delle diverse professioni;
  • di dare continuità alla formazione fatta sì con tanta efficacia ma anche con tanta fatica;
  • affrontare il problema politico: i finanziamenti per questi progetti devono diventare una voce di bilancio stabile delle istituzioni.

«Per sradicare questo che è un fenomeno culturale – ha aggiunto la dottoressa Ceraudo – bisogna lavorare sull’immaginario collettivo, rompere gli stereotipi di genere trasmettendo a bambini e ragazzi messaggi già destrutturati, coinvolgere le associazioni che si occupano di disabilità per parlare di violenza, muoversi verso le persone disabili, senza aspettare che siano loro a farlo».

Altri spunti di riflessione offerti dalle relatrici:

  • la necessità di una rete strutturata che dà conforto anche al medico, che ha sottomano numeri di telefono da chiamare, che sa di non sobbarcarsi da solo il percorso giudiziario perché ci sono strutture che supportano anche lui (Dei);
  • non porsi di fronte al racconto di una donna disabile che denuncia una violenza nella posizione di un poliziotto o di un giudice: la prima preoccupazione degli operatori sanitari è sempre capire se quel racconto sia vero o no. Da qui bisogna cominciare a decostruire: l’operatore sanitario deve prendere la storia, non gli costa niente. Il rischio di prendere una storia per vera dall’inizio è zero. L’operatore sanitario deve accogliere, ascoltare, proteggere. Il grado di veridicità del racconto si snoderà poi lungo il percorso (Monacelli);
  • la necessità da parte degli operatori sanitari di saper fare i conti con le emozioni che queste storie di violenza inevitabilmente scatenano (Ceraudo);
  • il bisogno di sostenere i genitori, il mondo intorno alla persona disabile va integrato negli interventi (Monacelli);
  • chiedersi, di fronte a una storia di violenza, se ci siano sul territorio gli strumenti per garantire alla vittima un dopo efficace, che non sia una vittimizzazione secondaria o un abbandono della persona (Ceraudo);
  • aiutare le vittime a riconoscere un compagno abusante, soprattutto per le forme di violenza psicologica, a capire la differenza tra amore e controllo (Dei);
  • la necessità di occuparsi non solo della protezione delle donne, ma anche degli uomini aggressori.

Al termine della tavola rotonda anche una presa di posizione decisa da parte di Giovanni Leoni, nella sua veste di vicepresidente FNOMCeO. «Il 24 settembre – ha spiegato – è entrata in vigore la legge sulle aggressioni al personale sanitario. Era la priorità della Federazione, ma sembrava una missione impossibile… Alla fine ce l’abbiamo fatta con un voto all’unanimità. La violenza di cui parliamo oggi ha bisogno di risorse e preparazione sistematica e capillare: mi assumo l’impegno personale di portare a livello nazionale quello di cui abbiamo discusso oggi».

E un altro strumento utile per far emergere la violenza invisibile sulle donne disabili è stato presentato in chiusura di questi due giorni di analisi e riflessioni: l’aggiornamento di un vademecum, preparato dalla CPO veneziana nel 2017 (e che sarà a disposizione a breve qui sul sito dell’Ordine), che raccoglie, tra l’altro, gli indirizzi e i contatti delle forze dell’ordine, dei servizi e delle istituzioni che sul territorio veneziano – dal centro storico al litorale – si occupano di violenza di genere.
«Offriamo alla fine di questo convegno – ha concluso Alessandra Cecchetto – un documento che aiuta i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta in caso di sospetto di violenza contro donne o minori. L’abbiamo aggiornato con i numeri utili che i colleghi possono tenersi sempre sotto mano e che possono chiamare per avere agganci in situazioni poco chiare o delicate».

La necessità di una rete strutturata e una formazione non improvvisata ma sistematica degli operatori sanitari sono i primi baluardi per la difesa delle donne vittime di aggressioni, fisiche o psicologiche. Anche e soprattutto per quelle disabili a cui si aggiunge una necessità in più: dar loro voce, attenzione ascolto. Accendere quella luce indispensabile per renderle visibili.

Alessandra Cecchetto, coordinatrice CPO OMCeO Venezia
Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Venezia

Segreteria OMCeO Ve
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