Fine vita: apriamo un dibattito sereno

Eutanasia, accanimento terapeutico, vita del paziente da difendere a ogni costo: il dibattito sul fine vita si è sempre mosso solo su questi binari. Un dibattito che coinvolge l'opinione pubblica, ma anche, sempre di più, la professione medica. E che chiama in causa vari aspetti dell'essere uomo e medico: la deontologia, l'etica, la sfera religiosa. Un dibattito che riesploderà a breve, quando, a marzo, una nuova legge sul fine vita sarà discussa in Parlamento. L'OMCeO di Venezia non si fa cogliere impreparato: avviamo oggi - con quest'intervista al dottor Cristiano Samueli, che indica una terza via possibile, quella della desistenza e dell'accompagnamento terapeutico - un dibattito, aperto a tutti gli interventi e le opinioni, che auspichiamo possa essere sereno e produttivo. Nella speranza di fare un po' di chiarezza e di approfondire un tema ostico, spesso strumentalizzato.

Desistenza e accompagnamento: strumenti possibili per il fine vita

Non solo i pazienti, spesso sono anche i medici ad essere poco informati su desistenza terapeutica e accompagnamento, due strumenti che, invece, potrebbero risultare decisivi nel complicato dibattito sul fine vita. A dirlo il dottor Cristiano Samueli, medico di medicina generale veneziano e presidente dell'AIDef, Associazione Italiana per le Decisioni di Fine vita. Un dibattito che tornerà a riesplodere a breve, quando a marzo arriverà in Parlamento una nuova proposta di legge promossa dai Radicali e a cui Samueli si oppone con fermezza.

Chiarezza nei termini. “Innanzitutto – spiega il medico – bisogna chiarire una cosa fondamentale: la desistenza terapeutica non ha nulla a che fare con l'eutanasia, da cui, anzi, prende le distanze e combatte anche l'accanimento terapeutico. La desistenza è l'atteggiamento con cui il medico desiste dalle terapie ritenute ormai futili ed inutili per il paziente pur continuando a prendersene cura, distinguendosi quindi anche dall'abbandono terapeutico. È un concetto che proviene dall'ambito dell'anestesia-rianimazione e si applica soprattutto, ma non solo, nei confronti dei malati terminali”.
In sostanza il medico decide di fermarsi quando capisce che i trattamenti hanno solo l'effetto di prolungare l'agonia del suo assistito: desiste e lo accompagna alla morte secondo criteri bioetici e deontologici. Con cure palliative, ad esempio, o con il sostegno psicologico per lui e per la famiglia. L'eutanasia, invece, è un atto intenzionale e deliberato del professionista nei confronti del malato. Detto brutalmente: il medico uccide il proprio paziente.

Autodeterminazione del paziente e professionalità del medico. “Nel fine vita – prosegue il dottor Samueli – ci sono due figure: il medico e il suo assistito. Quest'ultimo può appellarsi all'autodeterminazione, ovvero il suo diritto, sancito dall’art. 32 della Costituzione, di scegliere la cura in modo autonomo e indipendente, a seguito di un'adeguata informazione. Il problema che nasce è: come il medico può interfacciarsi con l'autodeterminazione del malato? Con la desistenza terapeutica”.
Quello che le collega è il patto di fiducia tra il medico e il paziente: l'assistito non può sapere quando la terapia va bene o no, si deve fidare di chi lo cura. E il medico deve sapere se e quando una terapia non funziona più. “Se sfora, se va oltre – dice – cade nell'accanimento. Una cosa, poi, si tende a dimenticare: che l'accanimento terapeutico ha una doppia valenza. Non è solo una terapia esagerata e futile è anche andare contro la specifica volontà del paziente”.

La terza via. "Vorrei chiarire che non esiste il concetto di eutanasia passiva – precisa il presidente dell'AIDeF – essendo scientificamente definita l’eutanasia come qualsiasi azione che porta intenzionalmente e deliberatamente a morte il malato ovvero l’azione con cui il medico uccide il paziente. Riguardo alle problematiche di fine vita si è sempre parlato solo di eutanasia o accanimento e quasi sempre in modo strumentale. Nel dibattito pubblico non c'è mai stata la terza via, ma la terza via c'è. Se, dopo aver spiegato tutto con chiarezza al proprio assistito ed aver concordato la sospensione delle cure perché vanno contro la volontà del paziente o le ritiene inutili non apportando benefici concreti, il medico decide di desistere, di non fare certe terapie, non vuol dire che non stia facendo il proprio mestiere. Il decidere di fare o non fare fa parte della nostra professione”.

Un esempio concreto: il caso Englaro. “Il caso di Eluana – spiega Samueli – è stato eclatante perché, conoscendo solo due termini della questione, non essendo accanimento, non si poteva parlare altro che di eutanasia. La terza via non era contemplata. Ma il medico che l’ha accompagnata nelle ultime fasi della sua vita è stato assolto sia in sede giudiziaria, sia ordinistica. Perché? Se fosse stata eutanasia, sarebbe stato condannato. In quel caso la volontà espressa dalla ragazza era stata ben chiarita: non voleva vivere in quelle condizioni. Il medico ha messo in atto la desistenza terapeutica: un atto professionale e deontologico nei confronti della paziente, coerente fra l’altro con la decisione su questo caso della Corte di Cassazione. Ha preso atto dell'autodeterminazione e continuare la terapia sarebbe stato accanimento, che è illegale”.

Fondamentale “prendersi cura”. Passaggio chiave del processo è la strategia dell’accompagnamento. Che non vuol dire necessariamente staccare le macchine. “L'accompagnamento – spiega il presidente AIDeF – è il risultato dell’atteggiarsi del medico che prende atto della propria professionalità e della volontà del suo assistito. Accompagnamento può essere anche tenere il paziente in vita con le macchine, se è ciò che lui vuole e se non sfocia nell’accanimento”.
Non ci sono, dunque, approcci standard, variano da caso a caso perchè ogni persona differisce per il modo in cui affronta la morte. Si applicano in particolare ai malati che il dottor Samueli definisce “inguaribili”, che non raggiungeranno mai la guarigione, ma di cui i medici devono comunque “prendersi cura”, non solo con le medicine ma, ad esempio, con il sostegno psicologico, con la terapia del dolore, le cure palliative, offrendo inoltre la possibilità del conforto religioso, se richiesto.

Formazione indispensabile. Altro nodo fondamentale da sciogliere, la formazione sul tema del fine vita per quanto riguarda la classe medica. “I colleghi – dice Samueli – sanno bene cosa voglia dire fine vita, ma ogni medico lo affronta in modo individuale. Il problema è come ti poni: abbiamo tanti corsi che ti aiutano a trovare un modo condiviso per affrontare temi come diabete o dislipidemie, sul fine vita no. È tutto delegato all'individualità del medico, alla sua sensibilità, alla sua morale”.
Mentre invece il crescente aumento dei pazienti in fine vita sta creando problemi nuovi da affrontare che, ovviamente, non si ponevano una trentina di anni fa e la cui drammaticità si impone oggi a causa della massiccia evoluzione scientifica e tecnologica che la scienza si trova ad affrontare. “Oggi – prosegue – si tengono in vita persone che trent'anni fa non si sarebbero salvate. Serve un modo comune per affrontare queste situazioni, che abbia fondamenta solide nell’etica e nella deontologia medica. Bisogna capire bene che cos'è la desistenza terapeutica, spiegarla ai colleghi. Il messaggio va portato nelle università, bisogna illustrare le strategie dell’accompagnamento. Bisogna formare i giovani medici sulle problematiche del fine vita. Cosa sono, come si affrontano, le terapie palliative, quelle del dolore, cosa dice la deontologia medica”.

Serenità di dibattito, necessità di una legge. Un dibattito, quello sul fine vita, che è sempre problematico e complesso perché entrano in gioco morale, etica, formazione religiosa. “C'è un modo per affrontarlo in modo sereno – dice il presidente dell'AIDeF – ed è spiegando esattamente, senza remore, soprattutto ai cittadini, i termini della questione: eutanasia, accanimento, accompagnamento. Capendo che il fine vita è sempre più presente e bisogna trovare una soluzione. L'accompagnamento è l'unica soluzione possibile”.
Una legge, insomma, serve, per i pazienti e per le loro famiglie. E deve essere inserita in un sistema sociale che funziona. “Ma non quella – specifica il dottor Samueli – che sarà presentata a marzo in Parlamento. Quel progetto di legge, presentato dall'Associazione Luca Coscioni e dai Radicali, che vorrebbe sostenere la legalizzazione dell’eutanasia in realtà non la propone nemmeno. Forse perché si sa che i cittadini vogliono un trattamento dignitoso nel fine vita, ma sono contrari e non pensano all'eutanasia. Ho il dubbio che le firme per presentare questa proposta di legge siano state raccolte facendo leva sulla scarsa conoscenza del tema da parte delle persone. Secondo questo disegno, eutanasia equivale ad autodeterminazione della persona nel fine vita. E invece, come detto, non è vero. Ragionare in questi termini di eutanasia significa creare confusione. Questa sarebbe una legge concettualmente sbagliata: qui si mette l'etichetta eutanasia a una cosa che con l'eutanasia non c'entra niente. Propongo invece l’apertura di un dibattito nazionale sulle problematiche di fine vita e rendo atto che l’Ordine dei Medici Chirurghi ed Odontoiatri della Provincia di Venezia è all’avanguardia su questi temi”.

Cristiano Samueli, medico di medicina generale e presidente AIDeF
Chiara Semenzato, collaboratrice giornalistica OMCeO di Venezia

Altre info sul sito: www.desistenzaterapeutica.it.

Segreteria OMCeO Ve
Categoria News: 
Notizie medici
Pagina visitata 2907 volte