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Condivisione e relazione per dare senso al fine vita
Data di inserimento: Lunedì, 13/06/16 - Segreteria OMCeO Ve
Relazione, condivisione, comunicazione efficace: queste le parole chiave più spesso risuonate sabato 11 giugno nella sala San Domenico dell'Ospedale Civile di Venezia al convegno Scelte etiche di con-fine a cui hanno partecipato insieme medici, psicologi e infermieri.
Una mattinata di studio – organizzata dalla Fondazione Ars Medica per conto dell'OMCeO veneziano, in stretta collaborazione con l'Ordine veneto degli Psicologi e con l'Ipasvi lagunare – per chiarire che nei percorsi del fine vita sono coinvolti tanti operatori sanitari, che tutti devono agire in sinergia, che il paziente, segnato da una diagnosi infausta, deve essere accompagnato nel modo migliore possibile, e che in una fase così delicata della vita di una persona è indispensabile passare dal curare al prendersi cura.
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Piena di sensibilità e vicinanza umana la dedica del convegno che il presidente dell'OMCeO veneziano Giovanni Leoni fa subito, in apertura, a una sua paziente 77enne, deceduta pochi giorni fa. “Una signora perfettamente lucida, – spiega – affetta da un adenocarcinoma, le cui condizioni cliniche, già molto complicate, si aggravano tanto da essere ncessario un intervento chirurgico. In me scattano tutti i protocolli operativi. Quando, però, vado a parlare con lei, mi dice molto serenamente che non ha intenzione di operarsi”. Il chirurgo parla con chi di dovere, con il medico di guardia, con lo psicologo, anche con il fratello della paziente. Ma lei resta sulla sua posizione. E muore nella notte.
“Chiuso il discorso per il problema clinico – prosegue il presidente – resta aperto quello etico, deontologico e di esperienza professionale. Con voi vorrei condividere la lucidità, la decisione, la consapevolezza dell'ultimo momento, della fine, che raramente ho visto in un paziente”.
“Il tema – dice nei saluti iniziali Giuseppe Dal Ben, direttore generale dell'Ulss 12 Veneziana, dell'Ulss 13 Mirano e dell'Ulss 14 Chioggia – è di quelli che fanno tremare i polsi, ma che i professionisti sanitari si trovano ad affrontare ogni giorno e anche più volte al giorno: domande a cui rispondere, comportamenti da attivare, scelte da fare o da non fare... Momenti come questi ci aiutano a formarci, a capire come agire, tenendo sempre ben presente che ogni persona nel momento di fine vita è qualcosa di particolare, di songolo, di unico. Non si possono fare protocolli uguali per tutti”.
Fondamentale, nel percorso di fine vita, l'apporto dello psicologo “che – spiega Oscar Miotti, vicepresidente dell'Ordine veneto – opera su tre livelli: supporta il paziente, accompagnandolo in questo delicato passaggio, ma anche i famigliari, che subiscono stress e talvolta disturbi post traumantici, e gli operatori sanitari, che magari restano coinvolti da una situazione e hanno bisogno di rielaborarla. Noi tendiamo a nascondere la morte, non ne vogliamo parlare, non prepariamo i bambini ad affrontarla perché rimangono impressionati. Ma educare le persone alla morte, aiuta anche ad avere una nuova consapevolezza sulla vita”.
L'evoluzione della professione infermieristica – sottolinea, infine, Luigino Schiavon, presidente del Consiglio regionale dell'Ipasvi – ci ha portato negli anni ad avere sempre più responsabilità, compresa quella di accompagnare le persone verso destini non sempre facili da gestire. A un certo punto l'operatore sanitario deve fare i conti con il suo insuccesso. Per questo abbiamo inserito il concetto di palliazione: quando non si hanno più obiettivi di salute, quando non si può più guarire, l'obiettivo diventa accompagnare, fare un percorso insieme, fare delle scelte. Tra fare e non fare non è così semplice: allora bisogna discutere, condividere, con il paziente e con l'équipe professionale. Il consenso al fare o non fare deve coinvolgere tutti gli operatori”.
Definire le domande e i contesti di con-fine l'obiettivo della prima parte della mattinata con relazioni sulle cure palliative, sull'importanza di una comunicazione efficace del medico al paziente, sulle teorie filosofiche che governano l'etica del fine vita, e sul ruolo di supporto e sostegno che il Comitato etico per la Pratica clinica può dare ai pazienti, ma anche agli operatori sanitari.
“La competenza e le risposte tecniche sono fondamentali, – spiega Giovanni Poles, responsabile dell'unità operativa complessa Cure palliative dell'Ulss 12 Veneziana – ma non bastano. Non si può prescindere da una relazione autenticamente umana e dalla condivisione. Le cure palliative interagiscono con tutti gli aspetti della persona, a 360 gradi, partendo dai bisogni clinici e assistenziali, ma con un approccio che si concentra sulla persona come soggetto in tutte le sue dimensioni”.
Con le cure palliative, insomma, l'attenzione si sposta dal guarire al prendersi cura: i professionisti della sanità, nei percorsi di fine vita, devono essere capaci di modellarsi sui bisogni dei pazienti e dei loro familiari, di adattarsi ai cambiamenti che una malattia evolutiva impone. Parole chiave: centralità della persona, lavoro d'équipe e condivisione delle scelte. A partire da un concetto di base: “Quando non si può più guarire – aggiunge Poles – si può ancora curare”.
Tantissime le questioni etiche in ambito di malattia avanzata o terminalità, le cui risposte non sono sempre le stesse:
- la nutrizione e l'idratazione artificiali;
- l'emotrasfusione;
- il rifiuto della terapia;
- i problemi etici connessi a un'efficace terapia del dolore;
- quando e come comunicare al paziente una diagnosi infausta;
l'équipe sanitaria nell'ambito della comunicazione con il malato cronico o terminale;
- l'uso di risorse limitate.
“Non dobbiamo spaventarci – conclude – di fronte alla realtà. L'esperienza della sofferenza è la più forte, la più difficile tra quelle che facciamo nella vita. Se uno riesce a porsi in modo sereno, costruttivo, coglie il senso della vita. L'operatore sanitario deve confrontarsi con questa esperienza con serenità, mettendo in gioco le proprie competenze. Così si riesce anche a rivalorizzare la professione”.
Tutto concentrato sull'importanza della comunicazione nel rapporto tra medico e paziente, l'intervento di Marco Ballico, medico psicoterapeuta e docente allo Iusve. “Non parlerò – mette subito in chiaro – né di etica, né di emozioni, né di empatia. L'interazione è qualcosa che coinvolge le persone qui e ora, è il viaggiatore che chiede un'informazione all'autista dell'autobus. Non è una relazione, che è invece qualcosa di diverso, di più profondo, una situazione in cui scatta qualcosa che porta a un legame. Con alcuni medici di cui non si sa nulla, che magari si vedono una volta sola, non c'è una relazione, ma solo un'interazione. Il medico che mi opera l'ernia non sa nulla di me”.
Quindi entrare in comunicazione con l'altro significa soprattutto scambiare con lui conoscenze profonde. “Bisogna – prosegue – avere il coraggio di darsi un po'”. Da qui i consigli pratici per una comunicazione efficace e soddisfacente con i propri pazienti:
- il contenuto da comunicare deve essere chiaro innanzitutto al medico;
- bisogna trovare l'espressione giusta per comunicare questo contenuto;
- bisogna controllare che l'espressione scelta sia effettivamente capace di comunicare ciò che si sta pensando;
- tenere ben presente che la persona che ascolta guarderà tutto del medico, il viso, le espressioni, l'atteggiamento, soprattutto in caso di diagnosi delicata;
- saper sopportare il silenzio;
- riformulare le frasi usando metafore comprensibili, lasciando da parte il linguaggio troppo tecnico;
- creare un contesto adatto, in cui il paziente si senta a proprio agio;
- esplorare cosa sa il paziente e cosa si immagina;
- capire quanto il paziente desidera sapere, non avere fretta di comunicare subito tutto;
- condividere le informazioni con il paziente: non è necessario dichiarare tutto il programma, ma è importante che ci sia;
- identificare e comprendere la reazione del paziente;
- pianificare e accompagnare, stabilire un accordo e supportarlo, condividendo con il paziente la fatica.
Il ruolo della filosofia nel derimere le questioni etiche legate al difficile percorso del fine vita e la definizione dei confini del lavoro etico di ogni operatore sanitario, al centro, invece, della relazione del professor Roberto Mordacci, docente di Filosofia morale all'Università San Raffaele di Milano. “C'è bisogno – si chiede subito – dell'etica? Ogni prassi, ogni pratica contiene al suo interno i propri valori e i propri obiettivi. Non basta, allora, la medicina a orientare? Certamente sì, chiarendo però quali siano i valori interni di questa pratica. Il più importante di tutti è il prendersi cura e non la guarigione o la salute”.
Nel percorso di fine vita, dunque, in primo piano c'è la relazione di cura. “L'etica – prosegue il docente – nasce da qui: in che modo questa relazione può dare un senso all'esperienza della perdita di salute e di accompagnamento verso la morte? Questa è la domanda morale. La filosofia può essere d'aiuto per esercitare un ragionamento pratico. Il filosofo non ha le risposte: pone le domande e aiuta a ragionare”.
E una di queste domande, uno di questi dubbi etici che spesso consumano i professionisti è la distinzione tra uccidere e lasciar morire. “Questa distinzione – spiega – contiene l'elemento decisivo, che è il senso. L'uccisione, a differenza del lasciar morire o ancora meglio dell'accompagnare, ha lo stesso effetto, ma significa che in quel tratto finale non c'è niente che possiamo condividere, niente che renda quel tratto finale ancora parte dell'esistenza di una persona. La questione centrale è cosa il paziente pensa: può richiedere di essere curato in tutti i modi possibili, ma può anche rifiutare l'intervento tecnico. Il paziente anche quando rifiuta le cure chiede di essere accudito in modo che il suo trapasso non sia doloroso, chiede di non soffrire. Qualcosa di ben diverso dall'eutanasia che dice: non c'è alcun accudimento possibile, allora uccidiamo”.
La prima parte del convegno si chiude con l'esperienza di chi questi dubbi etici, da filosofo, li affronta nel suo lavoro quotidiano: Giovanna Zanini, presidente del Comitato etico per la Pratica clinica sia dell'Ulss 12 Veneziana, sia dell'Ulss 13 Mirano. “La consulenza etica – spiega – è un servizio il cui obiettivo è migliorare il processo e gli esiti della cura del paziente. Lavoriamo per identificare le incertezze e i conflitti che emergono nella pratica clinica, come mediatori e facilitatori dei conflitti, come supporto esterno, nella convinzione che condividere aiuti a sentirsi meno soli”.
Ancora poco conosciuto come servizio, nell'ambito del fine vita la consulenza etica può intervenire nella comunicazione della diagnosi, nel rifiuto di terapie o interventi, dunque nei casi di dissenso, o sulle questioni relative al consenso informato. Può essere richiesta dal paziente, dai familiari, sia dal singolo medico, sia dall'équipe sanitaria per avere, con uno sguardo più esterno, un supporto in più in una decisione difficile da prendere.
“I benefici della consulenza etica – conclude – sono tanti: il confronto e la condivisione portano più serenità agli operatori. Una comunicazione più efficace porta a un clima migliore di fiducia con i pazienti e i familiari e una riduzione dei contenziosi. Con una xconseguenza immediata: una netta riduzione dei costi”.
A chiudere i lavori una mini performance teatrale: in “scena” Marco Ballico, Antonella Romeo, medico ospedaliero e Marco Codato, medico di famiglia a rappresentare l'inefficace comunicazione di una diagnosi infausta a una coppia di ben tre medici, uno di medicina generale, un chirurgo e un oncologo.
“Da parte nostra – dice Ornella Mancin, presidente della Fondazione Ars Medica, guidando il partecipato forum di discussione che ne è seguito – c'è spesso una grande difficoltà a comunicare una diagnosi avversa. I tempi di lavoro sono stressanti per tutti, ma bisogna trovarli e capire, a seconda delle persone che si hanno davanti, fino a che punto spingersi nella comunicazione”.
Chiara Semenzato, collaboratrice giornalistica OMCeO di Venezia.
Segreteria OMCeO Ve
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