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Salute: un diritto di tutti
Data di inserimento: Venerdì, 17/11/17 - Segreteria OMCeO Ve
Si è parlato di poveri italiani e di migranti, ma soprattutto di come la salute sia un diritto fondamentale da garantire a tutti, ieri sera, giovedì 16 novembre, nello spazio Open By Testolini a Mestre, nell’incontro Migranti e italiani sulla stessa barca?, organizzato dalla Cooperativa Gea, in collaborazione con la Camera penale veneziana e la sezione lagunare dell’Associazione Italiana Donne Medico (AIDM). Un incontro di riflessione e approfondimento «per capire – ha spiegato la moderatrice, la giornalista Nicoletta Benatelli – in un approccio non ideologico come salvaguardare da Lampedusa a Venezia i diritti umani degli stranieri che approdano sulle nostre coste e degli italiani a rischio di povertà e di esclusione sociale».
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E proprio dall’idea che il pilastro dei diritti cominciava a sgretolarsi anche in Italia è partita Emergency per aprire i propri ambulatori anche nel Belpaese, prima a Palermo, poi a Marghera. Oggi, dopo 10 anni, sono 15 i progetti avviati in 7 regioni, come ha spiegato Andrea Belardinelli, responsabile del Progetto Italia dell’organizzazione.
«Noi – ha aggiunto – non parliamo di italiani o di stranieri, ma di vulnerabili. L’Italia può e deve fare la differenza sotto il profilo dei diritti. Le idee ci sono ma stentano a venir fuori. Mediaticamente questo fenomeno non è raccontato nel modo giusto, viene sempre manipolato. L’informazione è inquinata, tossica, sta dividendo la società e questo è pericoloso. Il nostro obiettivo è scomparire, non dover più fare questo lavoro». A dare fastidio più che altro sembra essere la povertà: il calciatore musulmano ricco e famoso come pure gli imprenditori arabi pieni di soldi paiono non disturbare affatto.
Di paura e pregiudizi, ma anche di accoglienza diffusa, quindi più gestibile, ha parlato poi l’avvocato Giorgia Masello, vicepresidente della Cooperativa sociale Gea, illustrando il progetto Mare Nostrum che si occupa della gestione di strutture per l’accoglienza di persone straniere richiedenti protezione internazionale. Nel suo intervento il legale ha spiegato, ad esempio, come una cosa scontata per gli italiani come la residenza diventi per gli immigrati fondamentale. «Residenza – ha detto – significa carta d’identità: se la persona non ce l’ha, non può, ad esempio, aprire un conto corrente, quindi non può essere pagato uno stipendio dato che in Italia le retribuzioni non possono essere date in contanti». Ecco, allora, che si aprono solo due strade: non accettare l’eventuale lavoro trovato o essere pagato in nero, alimentando quell’economia sommersa e clandestina che si vorrebbe abbattere. In ogni caso «processo di integrazione finito: per loro la residenza non è solo un documento, è riavere dignità».
Si è concentrato, invece, più sulle povertà di casa nostra il direttore della Caritas veneziana Stefano Enzo, partendo dai dati sui frequentatori delle strutture diocesane, mense e dormitori, per lo più italiani, ormai al 70%. «Le emergenze sul nostro territorio – ha spiegato – oggi sono due: gli ammalati, soprattutto anziani che hanno bisogno di cure e che non possono più stare in ospedale, e i giovani, una povertà nascosta ma consistente. Secondo l’ultimo rapporto Caritas, i giovani sono i più penalizzati dalla povertà e dall’esclusione sociale: i figli stanno peggio dei genitori, i nipoti stanno peggio dei nonni». Persone che chiedono soprattutto cibo e vestiti, ma anche il pagamento delle bollette o degli affitti, il lavoro e l’assistenza sanitaria.
«Uscirò di qui con più domande di quelle che avevo quando sono entrata» ha detto all’inizio del suo intervento il legale Monica Gazzola, già coordinatrice del Progetto Lampedusa per la tutela dei diritti dei migranti via mare, istituito dal Consiglio Nazionale Forense, raccontando piccole grandi storie vissute sull’isola siciliana, dal bimbo arrivato solo che si affeziona a un’operatrice umanitaria al diritto all’identificazione e alla sepoltura dei morti in mare, all’azione costante dell’ormai famoso medico Bartolo. «Ottantamila persone – ha aggiunto – arrivate in Italia da gennaio a giugno di quest’anno si possono gestire se solo si volesse uscire dall’emergenza con soluzioni razionali. Parlare di invasione significa stravolgere la realtà».
Ampio spazio durante la serata è stato, poi, dedicato ai professionisti della sanità, a partire dall’esperienza raccontata da Emanuela Blundetto, medico di famiglia, consigliera dell’Ordine e vicepresidente della sezione veneziana dell’AIDM, che ha parlato in particolare delle difficoltà legate all’incontro negli ambulatori con le pazienti straniere.
«Da 10 anni a questa parte – ha detto – in ambulatorio passa l’umanità più varia: sia italiani in enormi difficoltà economiche, sociali, psicologiche, di disagio, legate alla perdita di lavoro o a separazioni, ragazzi soli, sia richiedenti asilo con iscrizioni a scadenza, che compaiono e scompaiono dalle mie liste di utenti ogni 3 o 6 mesi. Questo produce un’enorme difficoltà soprattutto nel creare un rapporto di assistenza efficace».
Tanti i problemi legati anche alla lingua e alla comunicazione. «Spesso – ha aggiunto – arrivano da me donne in gravidanza, frutto magari di una violenza o che vogliono abortire perché usano l’aborto come contraccettivo. Per me sono cose difficili da accettare. Ma ciò che è anche più difficile è parlare con queste donne perché noi non abbiamo mediatori culturali. Sono fortunata quando da me le donne arrivano con i figli, magari inseriti da qualche anno a scuola e che conoscono l’italiano. Ma mi trovo a parlare di cose private e delicatissime con bimbi di 6/7 anni perché i genitori non capiscono. Mi è capitato di dover dire a una donna che era incinta attraverso il figlio di 6 anni». Difficilissimo comunicare i termini scientifici o le patologie più serie nonché prescrivere i farmaci.
«Molti di questi pazienti – ha spiegato la dottoressa Blundetto – non riescono a curarsi. Se non hai l’esenzione, una visita comincia a costarti 25 – 30 euro. E questo vale anche per gli italiani: ci sono pensionati che sono nelle fasce più basse di reddito, che a stento riescono a pagare l’affitto e mangiano alle mense della Caritas, che quando cominciano ad avere problemi seri di salute, facciamo fatica a curare, soprattutto se servono visite specialistiche». Difficile per loro anche l’accesso agli ambulatori perché spesso queste persone sono malviste dagli altri pazienti in attesa.
«Queste persone – ha concluso il medico – hanno una diversa concezione del concetto di salute. Mi ero abituata all’idea di salute come benessere: è questo che mi chiedono i miei assistiti. Questa gente, invece, viene perché sta male. Devi dare una risposta a questo dolore: questa per noi è una sfida».
Presenti in sala anche Maria Pellosio, presidente di Rafiki-Pediatri per l’Africa, che ha raccontato l’esperienza di assistenza e cura ai migranti nell’hot spot di Pozzallo, e la presidente dell’AIDM veneziana, Viviana Zanoboni. «È arrivata da me – la sua testimonianza – una ragazza etiope di 23 anni, scappata dalla guerra, violentata, infibulata e vissuta per 48 ore sotto i cadaveri della madre, del padre e del fratello. I traumi che ha subito l’hanno portata ad essere sordomuta. Oggi vive in una piccola comunità della nostra città dove lavora come sarta. Viene da me e piange, mi dice di aver male dappertutto. Un male che io penso di non poter curare. Noi, come donne medico, saremo sempre in prima fila per combattere la violenza, sia sulle donne migranti, sia sulle donne italiane. Violenze quotidiane nascoste, anche verbali, psicologiche. Negli ambulatori è difficile dare risposte: il mio grande cruccio è di non poter aiutare questa ragazza perché lei avrà sempre male».
Prima della chiusura dei lavori un saluto anche dal presidente dell’OMCeO veneziano Giovanni Leoni. «Credo che la civiltà di un popolo – ha detto – si misuri sulla solidarietà che riesce ad esprimere. Questi principi sono ben saldi per noi medici, a partire dal nostro codice deontologico: curiamo la gente senza distinzioni di censo, soldi, colore della pelle, lingua. Lo facciamo e basta. Sono milioni le persone dall’altra parte del Mediterraneo in attesa di avere un mondo migliore. Credo che a parte l’accoglienza e la solidarietà immediata, forse dovremmo aiutarli a casa loro, ma non nel senso salviniano della questione. Nel senso che bisognerebbe essere un po’ meno egoisti, rendere più civile e moderna la vita nei paesi in via di sviluppo e non andare solo a depredarne le ricchezze e gli uomini. Dovremmo dimostrare questa maturità per impedire queste fughe di disperati».
Racconti, testimonianze, progetti, proposte: tanto è stato detto durante questa serata. Migranti e italiani sono sulla stessa barca? Forse sì, se si parla di diritti che si sgretolano. Se si parla di esclusione che fa cadere le persone, italiane o straniere poco importa, nell’invisibilità. Ma la barca non è necessariamente destinata ad affondare: si può governare, può cambiare rotta. Quello che serve, forse, è il giusto nocchiere.
Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Provincia di Venezia
Segreteria OMCeO Ve
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