Liberalotto: “Ottimo staff e fiducia, i segreti di una squadra vincente”

Fare squadra ed essere vincenti non è affatto un gioco da ragazzi. Lo ha spiegato chiaramente ieri sera a medici e dentisti, presenti all'incontro organizzato dalla Commissione Albo Odontoiatri, coach Andrea Liberalotto, allenatore della squadra femminile dell'Umana Reyer Venezia, che milita nel campionato di serie A.
Un tecnico di lunga esperienza, che, con la vittoria di domenica scorsa, ha tagliato il traguardo delle 153 panchine con la squadra lagunare. Un leader chiamato a spiegare ai professionisti della sanità le strategie per essere un team vincente, per lavorare in gruppo e raccogliere risultati di prestigio.

“Una serata – spiega il dottor Giuliano Nicolin, presidente della CAO, presentandolo l'ospite – organizzata per avere degli spunti, farci capire quanto è importante essere uniti, giocare con gli stessi schemi, avere una panchina lunga. Puoi anche essere un bravo allenatore, avere un quintetto base forte, ma ogni tanto lo devi far fiatare. Anche a noi serve qualcuno dietro per rifiatare”.

“Per vincere – esordisce il coach – non bisogna creare un gruppo, che ha bisogno di tempo per formarsi, ma una squadra. La differenza è che nella squadra le persone possono anche non andare d'accordo, ma se hanno un obiettivo comune e lavorano per raggiungerlo, la vittoria arriva”.
Lavoro significa sostanzialmente: sacrificarsi, credere molto in se stessi, non cercare mai alibi. “Una squadra – prosegue – può diventare gruppo se c'è stima. L'alibi è una scusante: significa non avere voglia di guardare dentro se stessi per capire cosa non va, cosa c'è da mettere a posto, da togliere o mettere per il bene comune. Io alleno le donne e le donne quando credono in qualcosa diventano micidiali in positivo, come una bomba. Devono avere un sogno, un desiderio forte”.
Per creare questo sogno, secondo coach Liberalotto diventa fondamentale il dialogo, non l'imposizione. “Bisogna conoscere le persone – dice – che sono tutte diverse e hanno tutte esigenze diverse. Il miglioramento della squadra passa nello sposare la stessa causa. Bisogna lavorare tutti nella stessa direzione, avere un obiettivo comune”.
Elemento indispensabile, allora, avere un ottimo staff alle spalle, quella che il tecnico della Reyer definisce “la squadra invisibile”. “La squadra visibile – spiega – sono le atlete. Quella invisibile è composta da tutti quelli che lavorano con me: i viceallenatori, i dirigenti, i fisioterapisti, i medici. Tutte persone stra-importanti ma che non appaiono. Se vengono trascurate da chi le gestisce, non si creerà mai il gruppo. Tutti devono sentirsi partecipi, ogni elemento dello staff deve avere il suo ruolo e le sue responsabilità precise. Per essere chiari nei ruoli e farli accettare, bisogna essere sinceri”.
Pazienza e motivazioni, altri aspetti fondamentali. “Nelle donne – continua Liberalotto – l'aspetto motivazionale conta molto e funziona se hanno stima in chi le allena. Perché, se si sentono prese in giro, auguri. Poi bisogna avere la pazienza di portare tutti allo stesso livello, anche magari le ragazzine giovani che vanno ancora a scuola. Chi ha più talento arriva prima, ma bisogna avere cura di stare dietro a chi ha più bisogno e fa più fatica. La sfida di chi allena è, certo, far rendere i talenti, ma soprattutto portare il livello medio al top”.
L'allenatore, però, non va in campo la domenica. “Il risultato – conclude il coach – è figlio della prestazione del giocatore. Il mio lavoro è preparare le giocatrici al momento topico della partita, portarle a risolvere da sole i problemi in campo, a trovare da sole la strada per uscirne. La giocatrice deve essere allenatrice di se stessa”.

Botta e risposta.

Un ampio spazio della serata è stato dedicato al confronto. Coach Andrea Liberalotto ha risposto a tutte i dubbi e le curiosità posti da medici e odontoiatri. Eccone una selezione.

1 – Noi medici siamo molto autoreferenziali, non siamo abituati a confrontarci: è positivo cercare idee, suggerimenti e stimoli fuori di noi. Tra noi i titolari sono sempre gli stessi, la panchina è corta. Il futuro, però, sono le nuove leve. Allora: come valorizzare i giovani? Come renderci raggiungibili e interessanti da loro?
Purtroppo oggi i giovani pretendono, senza essere. Amano la pubblicità, la visibilità, amano apparire. Pensano di essere forti, credono di essere già arrivati e, invece, devono ancora iniziare ad avere problemi. Rispetto a qualche anno fa, per renderli partecipi l'unico modo è farli giocare, renderli protagonisti, senza rischiare, però, di perdere le partite. Bisogna metterli nel binario anche se si sa che non sono pronti: i colleghi più esperti devono guidarli senza che loro se ne rendano conto.

2 – Lei dice: la squadra deve tirarsi fuori da sola dai guai. Non è facile, però, in partita, con l'emotività, lo stress...
Io non devo costruire qualcosa per me stesso, devo costruire un patrimonio per la società, da lasciare a chi verrà dopo di me. La mia può essere un'utopia: è vero che nell'ansia della partita l'errore può arrivare anche alla giocatrice più esperta. Ma non dimentichiamo che è il loro lavoro, un lavoro che comincia ad agosto, il martedì in palestra. Si lavora per evitare quell'errore. Se una persona ci crede, fa quello che gli dici. Non tutte le persone che alleno sono forti sotto il profilo psicologico, alcune non hanno autostima. Bisogna innescare in loro quello che chiamo lo spirito da battaglia, vivere le situazioni difficili che hanno, dentro e fuori dal campo.

3 – Nel nostro settore spesso si lavora in équipe, è fondamentale l'esempio, l'emulazione. Ma essere leader è difficile. Qual è la molla più grande per far credere nell'allenatore?
La cosa più importante è avere lo staff che marcia con te. Avere uno staff coeso significa aver fatto più del 50% del lavoro. I collaboratori però non devono emularti, i vice devono avere le loro responsabilità. Non avere le stesse idee è fondamentale, io ho bisogno del confronto. La decisione finale è mia, ma se so dividere i ruoli e far sentire tutti importanti, allora tutto funziona.

4 – La sanità italiana, dicono le statistiche, è tra le migliori al mondo. Non lo è, però, quando si trova ad avere a che fare con compiti non suoi, non strettamente sanitari. Quando la squadra non è in campo, quando è magari al bar, riesce a essere squadra? Quanto è utile lo staff quando la squadra è fuori dal campo?
Credo sia un po' utopico, significherebbe che la squadra è diventata gruppo totalmente. Può capitare a gruppetti, che magari anche fuori qualcuno si ritrovi e si identifichi. Ma è difficile. Io sarei già contento se succedesse in campo. Fare gruppo nella squadra invisibile, invece, è fondamentale. Per questo, spesso, quando cambia l'allenatore, cambia anche il resto dello staff, che si identifica in quella persona. Bisogna marciare tutti nella stessa direzione, con lo stesso obiettivo. Bisogna viverla a 360 gradi.

5 – Quanto conta l'aspetto psicologico e quanto la preparazione fisica?
Io devo allenare tutti gli aspetti: tecnico, fisico e mentale. La sfida è proprio l'aspetto mentale: se manca la testa... Allenare la psicologia è anche l'aspetto bello di chi allena. Tutti riescono ad allenare tecnicamente, ma la capacità si vede nel far accettare ai giocatori le proprie idee.

6 – L'allenatore è il leader della squadra, ma lo è anche il capitano... Come gestirlo senza farlo diventare una primadonna che affossa il lavoro di squadra?
Bisogna conoscere bene le dinamiche del gruppo. Non credo che il capitano debba essere per forza un leader: il leader non è chi sa di esserlo, ma chi viene riconosciuto tale dagli altri. Ci sono i leader tecnici, quelli più bravi in campo, ma ci sono anche i leader di spogliatoio. Questo è nella mia testa il capitano. So che se le cose vanno male e non entro io a parlare con la squadra, lo farà lui. È più facile trovare leader di campo perché a tutti piace vincere.

7 – L'allenatore ha tante responsabilità, quindi deve affrontare molto stress. Come si coniuga l'entusiasmo con la freddezza del momento difficile?
Bisogna fare prima un lavoro personale per avere un proprio equilibrio, indipendentemente da come vanno le cose. Se le cose vanno bene è facile. Io devo avere un buon equilibrio nella mia vita extra basket: io riesco a staccare, a casa non parlo mai di basket. Ma quanto è bella la responsabilità? Odio quando è tutto tranquillo e sereno e cerco di creare situazioni di stress, perché nello stress alleno le mie giocatrici. Ma io non devo arrivare stressato alla partita. Mi piace creare situazioni in cui la gente è viva.

Chiara Semenzato collaboratrice giornalistica OMCeO di Venezia

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