La violenza in corsia si combatte così

Norme di legge più severe per punire gli aggressori, tecnologia per garantire la sicurezza nei presidi sanitari, ma anche una nuova organizzazione delle strutture – nei pronto soccorso, ad esempio, dove si verificano la maggior parte delle aggressioni e delle minacce – una formazione ad hoc degli operatori e una rivoluzione culturale che deve riguardare non solo la classe medica, ma l’intera società.
Sono questi gli strumenti con cui i camici bianchi cercheranno di contrastare il fenomeno delle aggressioni al personale sanitario, così come emerso dal convegno nazionale sul tema organizzato lo scorso primo febbraio nella Scuola Grande di San Marco a Venezia dalla Federazione nazionale degli Ordini (FNOMCeO) e dall’OMCeO veneziano.

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A fare gli onori di casa il presidente dell’Ordine lagunare e vice nazionale Giovanni Leoni e il presidente FNOMCeO Filippo Anelli che hanno annunciato come proprio con questo convegno si apra un’importante settimana di riflessioni sul tema che vedrà appena qualche giorno dopo, il 5 febbraio, la presentazione nei palazzi romani della politica del docufilm Notturno, voluto dalla Federazione nazionale proprio per sensibilizzare i cittadini sulla violenza in sanità (guarda qui il trailer: https://youtu.be/kYUGkRzBbIo).
Al loro fianco le istituzioni locali e sanitarie rappresentate dall’assessore comunale alla Coesione Sociale Simone Venturini, dal direttore generale dell’Ulss 3 Serenissima Giuseppe Dal Ben e dal direttore generale dell’Ulss 4 Veneto Orientale Carlo Bramezza, che hanno sottolineato come le aggressioni ai professionisti della sanità minino la credibilità e l’autorevolezza dell’intero Servizio Sanitario Nazionale, come le aziende debbano saper difendere i loro lavoratori e come vada ricostruito il ruolo sociale del medico.

Gli strumenti per combattere la violenza
A chiarire alcune delle direttrici su cui muovere l’azione e a sollecitare un rapido intervento della politica è stato, in apertura dei lavori, il presidente nazionale Filippo Anelli, a partire dai dati di un questionario condotto proprio dalla Federazione su 5.024 medici: nell’ultimo anno ben il 50% degli intervistati ha subito aggressioni verbali e il 4% violenza fisica.
«Questi dati – ha aggiunto – dimostrano lo sconforto della categoria. Il fenomeno sta ormai diventando una vera e propria emergenza di sanità pubblica. Non si può più aspettare: la politica deve dare un segnale forte. Per queste aggressioni serve una misura d’urgenza, un decreto legge che renda subito efficaci i provvedimenti contenuti nel disegno di legge già approvato dal Senato e ora all’esame della Camera», misure che prevedono, ad esempio, l’aumento delle pene, anche fino a 16 anni di carcere, e la procedibilità d’ufficio.
Oltre alla via legislativa, però, da rivedere sono anche l’organizzazione delle strutture sanitarie, la formazione degli operatori, che devono essere in grado di riconoscere le condotte sentinella, cioè i segnali di pericolo prima che la violenza venga messa in atto, e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
«È giusto dissuadere gli aggressori – ha spiegato Anelli – ma questo non basta. L’azione più importante è mettere in sicurezza i medici e gli operatori, facendo applicare la normativa e aggiornandola secondo le nuove esigenze e la valutazione dei rischi e prevedendo presidi di polizia nei pronto soccorso e nelle sedi pericolose. Occorre, infine, una svolta a livello culturale» ed è proprio per raggiungere questi obiettivi che la FNOMCeO ha messo a disposizione degli iscritti corsi di formazione ad hoc per informare e prevenire le aggressioni.

Come sottolineato, però, da un altro degli ospiti e amici dell’Ordine lagunare, il consigliere Adelchi D’Ippolito, procuratore della Repubblica vicario di Venezia, la soluzione al problema non può arrivare solo da un provvedimento giudiziario. «Le strade da percorrere – ha spiegato il magistrato – sono anche altre: una specifica formazione per i medici e la creazione di un ambiente sicuro e sereno in cui lavorare. Questo – ha aggiunto rivolgendosi ai presenti – dovete pretenderlo da chi organizza il vostro lavoro, perché una persona che aspetta 15 ore al pronto soccorso, senza informazioni, alla fine è esasperata», e dunque più incline alla violenza.

Anche il questore di Venezia Maurizio Masciopinto, intervenuto nel pomeriggio, ha sottolineato come «nelle aree ospedaliere la sicurezza vada predisposta secondo due direzioni: la sensibilità dei direttore generali rispetto a questo tema e la sicurezza dei piccoli presidi». A fare la differenza, insomma, deve essere il clima di legalità che si instaura nella struttura sanitaria: tutta una serie di misure che possono essere attuate grazie a un confronto continuo con le forze dell’ordine. «Oggi – ha concluso il questore – ci sono tante piccole apparecchiature che hanno costi bassissimi. Le risorse economiche sono un falso problema: con 6/7mila euro si mette in sicurezza l’intera provincia. Ci vuole la volontà politica».

La sicurezza di medici e infermieri, insomma, deve diventare una priorità per le aziende sanitarie. Norme più severe, ma anche luoghi d’attesa più confortevoli, informazioni immediate ai pazienti, valutazione dei rischi, presidi di polizia nei pronto soccorso, nelle sedi pericolose e nelle guardie mediche, e sistemi tecnologici di sicurezza, dalla videosorveglianza ai body scanner ai pulsanti collegati con le sedi delle forze dell’ordine.

Il cambio di passo culturale
A promuovere con forza un deciso cambio di passo soprattutto culturale è stata la Fondazione Ars Medica che al tema della violenza in sanità ha dedicato l’ultimo ciclo dei Mercoledì filosofici organizzati all’Ordine di Venezia da Ornella Mancin, Gabriele Gasparini e Marco Ballico, e che durante il convegno ha presentato – per voce del vice lagunare Maurizio Scassola – un documento di sintesi.
«La violenza al personale sanitario – hanno detto – sta diventando un’emergenza nell’intero territorio nazionale. I medici, in particolare, subiscono aggressioni verbali e fisiche a volte molto gravi. Oltre alle misure legislative in corso di approvazione, urgenti e necessarie per arginare il fenomeno, occorre trovare una modalità più educativa come vera forma preventiva e, in alcune aree delle società più vulnerabili (Sanità, Istruzione, Istituzioni Pubbliche, etc.), formulare degli interventi specifici».
Occorre intervenire sull’organizzazione delle strutture sanitarie – perché «l’estremizzazione del concetto di Azienda Sanitaria rischia di snaturare i principi fondanti il Sistema Sanitario Nazionale e non far percepire più ai cittadini il suo enorme valore sociale» – ma anche un nuovo patto di corresponsabilità tra medico e paziente in cui i camici bianchi condividano con il malato i percorsi di cura più idonei e ragionevoli e in cui il paziente, coinvolto e adeguatamente informato, possa esprimere consenso o diniego in piena consapevolezza e libertà.
«La Medicina – hanno spiegato ancora – nonostante l’opinione comune sempre più convincente, non è una scienza esatta, ma un continuo affinarsi di conoscenze applicate da uomini pensanti e pertanto, di fatto, vulnerabile all’errore. Un importante elemento peggiorativo, nel delicato contesto del rapporto medico-paziente, si impone qualora mal funzionamenti organizzativi siano responsabili di errori che minano la credibilità della Medicina stessa o del Sistema Sanitario Nazionale con un inevitabile aumento del malcontento e dell’aggressività da parte dei pazienti».
Rispetto e fiducia reciproca dovranno tornare a essere gli elementi fondanti della relazione di cura: i medici dovranno implementare le capacità comunicative e di ascolto, i pazienti dovranno riconoscere al medico le conoscenze e le competenze che gli sono proprie. (Clicca qui per leggere il documento integrale).

I testimoni
«Non avrei mai pensato potesse succedere a me». Silenzio e commozione calano nella Sala degli Angeli quando si avvicina al microfono per raccontare la propria esperienza Maria Carmela Nuccia Calindro, medico all’ospedale crotonese San Giovanni di Dio, aggredita nel dicembre 2018.
Un uomo a volto coperto, armato di cacciavite e coltello, la aspetta alla fine del suo turno mattutino e la colpisce ripetutamente in testa, al collo e al torace, gridando: «Devi essere punita, hai fatto morire mia madre». A salvarla il provvidenziale intervento di un ambulante marocchino.
«La sensazione – ha detto con voce ferma – è stata quella di morire. Ma ero viva. Le ore successive sono state di grande sofferenza psichica e fisica. Mi chiedevo: chi è il mio aggressore? Perché a me? Ho commesso degli errori? Avevo paura di aver in qualche modo sbagliato, di avere una responsabilità».
A colpirla, invece, un vicino di casa che, due anni prima, le aveva chiesto aiuto per la madre anziana e malata. «La mia colpa? Avergli consigliato – ha raccontato – il ricovero in ospedale, dove poi la signora è morta. Un’aggressione come questa ti cambia, influenza il tuo stile di vita: sei pieno di paura, di rabbia, di delusione, di senso di impotenza, ti senti insicuro. Oggi cerco di lasciarmi alle spalle questa storia, di tornare alla normalità perché io non permetto a nessuno di rubare la mia vita».

Testimoni d’eccezione anche due veneziani, il dottor Giovanni Bergantin e Tiziana Mattiazzi, medico e segretaria del gruppo di medici di famiglia di Cavarzere, vittime nel 2017 di una violentissima aggressione da parte di un paziente e protagonisti del docufilm Notturno, realizzato dalla FNOMCeO e di cui proprio a Venezia è stato presentato in anteprima il trailer.
Ad avere la peggio il medico, travolto da pugni e calci al volto: per lui un intervento chirurgico e una luna convalescenza. «Quello che si presentava agli occhi – ha ricordato Tiziana Mattiazzi – era sangue dappertutto, persino sui quadri. Il dottore crollato a terra...».
«Non so quanti colpi ho ricevuto – ha aggiunto lui – ma quelli che ricordo sembravano interminabili. Il rientro al lavoro, in ambulatorio, è stato problematico: non ero più sereno, soprattutto alla chiusura, quando magari restava un solo paziente. Temevo di non riuscire più a svolgere il mio lavoro con la stessa passione».
Problema, per fortuna, oggi superato anche grazie al supporto psicologico. Perché, alla fine, a vincere è proprio la passione che spinge questi medici a tornare lì, al loro posto, in prima linea, a curare gli altri e a salvare vite.

Significativo anche il racconto di Chiara Negri, giovane, appena trentenne, consigliera dell’OMCeO di Parma che ha spiegato come si sia ritrovata in passato a rifiutare, a malincuore, un contratto di lavoro perché riteneva la sede troppo pericolosa e di come molte sue colleghe – si parla qui dell’Emilia Romagna – per paura si facciano accompagnare in ambulatorio da padri, mariti, fidanzati.
Da qui l’idea dell’Ordine di Parma di condurre un’indagine tra gli iscritti, presentata con il vicepresidente Paolo Ronchini, per monitorare la sicurezza in particolare di chi opera in continuità assistenziale. I risultati:

  • il 45% degli intervistati ha subito violenza, soprattutto verbale, ma anche gestualità intimidatorie e aggressioni fisiche;
  • l’87% dice di sentirsi in pericolo;
  • nel 59% dei casi la vittima era donna;
  • i tre quarti degli episodi sono avvenuti di notte;
  • nel 31% dei casi la violenza non è stata segnalata, ma anche chi ha segnalato ha sottolineato come poi “non sia cambiato nulla”.

I dati Inail sulle aggressioni
E, secondo i dati disaggregati dell’Inail per il 2019, illustrati al convegno da Domenico Della Porta, referente della FNOMCeO per l’ente e presidente dell’Osservatorio nazionale Malattie Occupazionali e Ambientali all’Università di Salerno, sono quasi 4 al giorno le aggressioni denunciate, 1.388 in un anno. Cifre che comprendono, però, solo le violenze compiute nei confronti del personale dipendente del Servizio Sanitario nazionale. Restano tagliate fuori dal conto, dunque, quelle alle guardie mediche, ai medici di famiglia e ai pediatri di libera scelta che esercitano in regime di convenzione. Ben 1850, invece, nel 2019 le aggressioni contro operatori sanitari e sociali. È donna il 71% delle vittime.
«Ricordatevi – ha spiegato il dottor Della Porta – che ovunque accada l’aggressione, il responsabile è sempre il datore di lavoro e che il rischio non può essere eliminato. Ma molto si può fare per ridurlo. Le aggressioni avvengono dove vi sono condizioni di forte stress fisico e psicologico del paziente o dei familiari. Alla base di tutto c’è l’insoddisfazione che dà luogo poi alla violenza».
Il relatore ha anche spiegato come in realtà in Italia già ci siano gli elementi per intervenire, senza dover aspettare nuovi provvedimenti di legge: le indicazioni dell’Inail, ad esempio, su videosorveglianza, formazione e addestramento del personale sanitario, informazione ai pazienti e la necessità di non lavorare mai da soli.

Tanti ospiti di caratura nazionale
Tanti e di caratura nazionale gli ospiti arrivati in laguna per seguire i lavori del convegno. Oltre a Maria Grazia Carraro, direttore sanitario dell’Ulss 4 Veneto Orientale, Roberto Merenda, direttore del dipartimento chirurgico dell’Ospedale Civile di Venezia, Francesco Noce, presidente della Federazione degli Ordini del Veneto e di OMCeO Rovigo, Antonio Magi, guida dell’Ordine romano e del SUMAI, e Pierantonio Muzzetto, presidente OMCeO Parma che hanno moderato le sessioni di lavoro, si sono alternati al microfono:

  • Silvestro Scotti, presidente dell’Ordine napoletano e segretario nazionale FIMMG, che, partendo dalle violenze accadute all’inizio dell’anno, ha raccontato come si vive nei presidi sanitari della sua città, ha sottolineato una differenza tra collera subitanea e collera tardiva, chiedendosi quale sia alla base delle aggressioni, ha fatto accenno ai pazienti psichiatrici che difficilmente vengono intercettati e che spesso sono autori delle violenze e ha espresso qualche perplessità sui provvedimenti allo studio del Governo, specificando come la classe medica abbia bisogno «che si faccia presto e bene»;
  • Enrico Ciliberto, presidente di OMCeO Crotone, che ha parlato delle disuguaglianze di salute, ma anche di come i dissesti finanziari e i piani di rientro poco efficaci, i commissariamenti o gli scioglimenti delle aziende sanitarie, la carenza di medici, il taglio dei posti letto abbiano portato la sanità calabrese sull’orlo del baratro;
  • Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva, che ha sottolineato oltre all’aumento del numero di medici che chiede aiuto all’associazione e la vicinanza della stessa alla categoria, anche come nel Paese ci sia ormai un disagio sociale drammatico e non governato, le difficoltà reali a intercettare e seguire i pazienti psichiatrici, come i «disastri organizzativi e strategici provochino questi atti di violenza» e sia dunque necessario «alzare il livello di guardia», come sia ormai imprescindibile intervenire sulle cause che provocano le disfunzioni del Servizio Sanitario nazionale;
  • il legale padovano Fabrizio Scagliotti, avvocato del Lavoro Sanitario Pubblico e Privato, che ha spiegato come mettere in sicurezza le strutture sia un costo, «ma anche non farlo lo è», quali siano le figure di responsabilità per la prevenzione e la protezione dei lavoratori, e ha dato una serie di consigli per misure organizzative pratiche, tra cui: scrivere chiaramente nelle strutture che gli episodi di violenza non sono tollerati, avviare una collaborazione stabile con le forze dell’Ordine, sensibilizzare il personale a segnalare sempre gli episodi di violenza, dare informazioni chiare, continue e costanti ai pazienti sui tempi di attesa, la presenza sempre di almeno due figure professionali durante una visita in ambulatorio, la formazione del personale sulle precauzioni universali della violenza.

Prevenzione, informazione e formazione sono le parole chiave rilanciate da Roberto Monaco, segretario della FNOMCeO e presidente dei medici di Siena, che ha chiuso i lavori del convegno. «Spesso – ha spiegato – non si considera un’aggressione un evento sentinella. Per contrastare il fenomeno della violenza, oltre all’approvazione della nuova legge, è necessario che i direttori generali si facciano carico della sicurezza sui luoghi di lavoro, che non ci siano strutture fatiscenti, che si riesca a creare nell’opinione pubblica e nella politica un’attenzione più forte a questo tema. Le punizioni più severe saranno un deterrente, ma non basta. Non possiamo più aspettare: vogliamo stare vicini agli altri, ma non possiamo avere paura dei nostri pazienti».

Mostrando, infine, le immagini di alcune strutture sanitarie già attrezzate con tecnologia e sistemi di sorveglianza, il presidente veneziano Giovanni Leoni ha sottolineato come «tutto questo sia già possibile con risorse davvero minime. La vera prevenzione, però, si fa soprattutto con l’educazione dei più giovani ai principi più sani e universali, quelli di solidarietà, del rispetto reciproco, della tutela del più debole. I ragazzi hanno bisogno di punti di riferimento, di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo».
Oltre alla legge, alla tecnologia e alla formazione, insomma, c’è un’importante rivoluzione culturale da fare, che parte da lontano, dalla scuola e dalla famiglia, che va al di là del mondo sanitario e interessa l’intera società.

Chiara Semenzato, giornalista OMCeO Provincia di Venezia

Segreteria OMCeO Ve
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